Di Domenico Musella
Di neoliberismo si
muore. Di ingiustizia si muore. Di neoliberismo e di ingiustizia (strettamente
correlati) si protesta.
Come in Grecia, come in Spagna, come in Turchia, come un po’ ovunque, la gente del Brasile è stremata e scende in
piazza. Anche se la stampa tende a circoscrivere e
relativizzare i motivi, è l’intero sistema politico-economico-sociale che
mostra sempre più palesemente il suo fallimento e che è messo in discussione da
questi continui sommovimenti che avvengono nel mondo a catena, come i tasselli
cadono l’uno dopo l’altro nel gioco del domino.
Centinaia di migliaia di persone (almeno
250mila secondo
gli organizzatori) hanno invaso le strade di numerose città e località del
Paese, già da martedì della scorsa settimana ma con un picco, finora, avvenuto lunedì 17.
Il giorno in cui Rio
de Janeiro e San Paolo, le principali metropoli, e un’altra decina di grandi
città hanno visto immense manifestazioni pacifiche, e a Brasilia un gruppo di manifestanti ha preso
d’assalto il Palazzo del Congresso Nazionale (il Parlamento) occupando la cupola
dell’edificio. Anche altre sedi di governo locali sono state temporaneamente
occupate, mentre gli incendi e i danni ai negozi sono stati relativamente
pochi. La composizione della gente scesa in piazza è eterogenea, come in molte di
queste ultime proteste in tutto il mondo. Il malcontento e l’indignazione sono
trasversali e generalizzati, è complicato etichettarli. Si scende in strada per
i diritti fondamentali, per la dignità. Si scende per tutti, e con tutti:
studenti e pensionati, lavoratori e disoccupati, utenti degli autobus come
automobilisti. Ancora una volta, la repressione è stata la principale arma che le
autorità hanno trovato per rispondere al malcontento popolare, che invece nasce
disarmato e nonviolento. Diverse centinaia sono i feriti negli scontri che
proseguono anche in queste ore, un centinaio gli arresti. Da parte di polizia
militare e truppe choque (“d’assalto”), spesso nervose e testarde,
si è fatto largo uso di
proiettili di gomma, spray
urticanti e gas lacrimogeni.
Diretti ai manifestanti, ai giornalisti, ma anche a passanti o ciclisti non
coinvolti nella protesta. Questo soprattutto a San Paolo, dove il Ministero
della Giustizia sta conducendo un’inchiesta sull’eccessiva violenza utilizzata
dalle forze dell’ordine. In un interessante videoreportage
di TvFolha, la web tv del quotidiano Folha de São Paulo, viene denunciata la brutalità
della polizia nella metropoli brasiliana, in particolare nelle giornate di
martedì e giovedì scorso, sentendo anche le voci di alcuni protagonisti, come una
giornalista della stessa testata colpita all’occhio da una pallottola di gomma. Ma come mai, è legittimo chiedersi, Paesi come
il Brasile (e la Turchia) sono teatri di contestazione, proprio quando
cominciano ad affacciarsi tra le grandi potenze mondiali, e registrano successi
nella loro crescita economica?
La
risposta è insita nella domanda. Gli squilibri che portano alle rivolte non
avvengono nonostante la crescita economica, ma proprio a causa di
essa. È lo stesso paradigma del neoliberismo, verso cui anche i cosiddetti
“Paesi in via di sviluppo” si rivolgono, che non regge più. La popolazione sta
vivendo sulla propria pelle le conseguenze del considerare come fine unico la
“ricchezza”, peraltro concentrata nelle mani di pochi e mai distribuita, e dell’accettare
che per perseguirla ogni mezzo sia buono, non importa che questo leda i
diritti, cacci le persone dalle proprie case, metta a rischio le minoranze…
Certo,
per mobilitare le grandi masse servono le contraddizioni estreme e palesi, le
gocce che fanno traboccare i vasi. Il Brasile ne ha avute di recente due in
particolare, aldilà della crisi globale, per far scendere in piazza folle che
non si vedevano da 20 anni (nel 1992 la popolazione ‘verdeoro’ protestò in tutto il Paese contro il governo corrotto di Fernando
Collor de Mello e lo mandò a casa). Da un lato, l’aumento delle tariffe di un servizio di
trasporti inefficiente, ennesimo caso in cui si cercano nelle tasche dei cittadini
i soldi non investiti dalle amministrazioni per i servizi di base. In
particolare, nella metropoli di San Paolo il prezzo del biglietto degli
autobus, ha visto un ennesimo rincaro da 3 réis a 3 réis e 20. Dall’altro lato,
a fronte del mancato investimento in servizi essenziali, ci sono i miliardi spesi per organizzare dei grandi
eventi sportivi. Stiamo parlando della Confederations Cup in
corso in questi giorni, dei Mondiali di calcio del 2014 e dei Giochi Olimpici del 2016 (qualche giorno fa vi abbiamo
segnalato questa intervista al disegnatore
Carlos Latuff sulla speculazione immobiliare legata a tali eventi). Immaginate cosa
significhi per un brasiliano essere costretto a protestare contro delle
kermesse del calcio mondiale: la situazione deve essere davvero estrema.
Não é por vinte
centavos, é por direitos (“Non è per i 20
centesimi, è per i diritti”) è lo slogan letto e ascoltato a San Paolo e nelle
piazze brasiliane. Questo perché innanzitutto sono ben altre le cifre in
discussione (33 miliardi di réis per la Confederations Cup, 26 per le
Olimpiadi, 50 quelli che se ne vanno in corruzione, mentre il salario minimo è
di 678 réis). Ed inoltre perché la protesta riguarda la dignità della
popolazione, riguarda la sacrosanta pretesa di veder spesi i soldi dello Stato
prima di tutto per i diritti essenziali che mancano, facendo posizionare il
Brasile 85° nel ranking dell’Indice di Sviluppo Umano (ISU),
molto indietro rispetto ad altri
Paesi dell’area.
In
Brasile (ma non solo) la linea continua a essere l’inseguimento di “grandi”
eventi e “grandi” opere che tuttavia, oltre ad un’enorme allucinazione
collettiva e a un effimero guadagno d’immagine creano vantaggi solo per piccoli
(anzi, piccolissimi) gruppi di persone, quelle che meno avrebbero bisogno di
essere aiutate, oltre che danni. In un video che sta circolando molto nella
rete, la regista brasiliana Carla Dauden,
trapiantata negli Usa, spiega perché è
necessario boicottare i Mondiali del 2014:
Tanti sono i conflitti
aperti in Brasile in questo momento.
La questione dei
popoli indigeni.
Appena lo scorso anno i nativi
occupavano le sale del Parlamento, oggi scendono di nuovo in strada.
Le diverse popolazioni originarie che convivono in Brasile sono minacciate da
grossi progetti distruttivi, come l’enorme diga sul fiume Xingu destinata ad
alimentare la centrale idroelettrica di Belo Monte (nello Stato settentionale
del Parà). Il governo federale, oltre a dare il via libera a tali progetti,
cerca in tutti i modi di disporre delle terre che appartengono agli indigeni.
L’accesso a sanità e istruzione. L’analfabetismo
raggiunge vette simili a quelle di Bolivia e Paraguay (i Paesi più poveri
dell’America Latina): circa il 10% (i semi-analfabeti sono attorno al 20%). Il
sistema scolastico pubblico è uno dei peggiori del mondo, così come quello
sanitario, assolutamente insufficiente ai bisogni della popolazione in molte
zone del Paese. In questi settori, basilari, è netta la disuguaglianza sociale:
chi ha i soldi accede a scuole private o può stipulare polizze sanitarie,
mentre la stragrande maggioranza delle persone, con reditti bassissimi o
medio-bassi, ha pochissime garanzie.
Il diritto alla casa è fortemente leso, complice
una devastante speculazione immobiliare che favorisce le grandi imprese e chi
una casa può permettersela. Tutto ciò si è aggravato negli ultimi tempi,
soprattutto nelle zone periferiche, nei quartieri a maggioranza nativa e nelle favelas: i terreni sono espropriati,
gli inquilini sfrattati e le case abbattute (senza assistenza o soluzioni
alternative) per far spazio agli impianti sportivi e alle megastrutture di
Mondiali e Olimpiadi. Ubi grande opera, gente povera
cessat.
Sommiamo
a tutto questo i problemi relativi al trasporto
pubblico inefficiente, alla criminalità,
alla diffusa povertà, alla corruzione dilagante. Un mix
esplosivo che, con la crescente inflazione e la crisi globale, costituisce il
retroterra delle dimostrazioni di questi giorni (a tal proposito è
‘interessante l’articolo di Peter Storm
su ROARmag).
Dal
canto suo la presidente Dilma Rousseff,
che come ricordiamo è membro del PT – Partito dos Trabalhadores(lo
stesso del suo predecessore e ispiratore, lo stesso di Luiz Inácio Lula da
Silva), in una
dichiarazione pubblica ha riconosciuto la legittimità delle
richieste dei manifestanti rispetto alle carenze del Paese, parlando
di «vitalità della democrazia brasiliana» e di «Paese che con queste
manifestazioni diventa più forte». Non
esprimendosi, tuttavia, in merito alla repressione, né facendo passi indietro
rispetto ai miliardi per i grandi eventi o alle grandi opere. Il capo di Stato (che ieri ha
partecipato ad un vertice su #OccupyBrazil a San Paolo con il sindaco Haddad e
l’ex presidente Lula) ha inoltre ribadito che il governo continua ad essere
impegnato nel «cambiamento del Paese». Se le va dato atto che una parte della
popolazione ha migliorato le condizioni di vita, andando al di sopra delle
soglie di povertà, da quando Lula e poi la Rousseff sono al potere, è vero
anche che finora lo sforzo non è stato all’altezza delle grandi aspettative. Le
logiche di speculazione senza controllo e di repressione del dissenso sono
rimaste. La socialdemocrazia si è dimostrata fallimentare nel suo non andare
realmente oltre i meccanismi, superati, di questo sistema economico e sociale
che da anni esprime le sue contraddizioni in America del Sud.
Per restare
aggiornati sull’evoluzione delle proteste, consigliamo di seguire il
quotidiano Folha de São
Paulo che ha anche un’edizione in inglese ed una in spagnolo,
le agenzie internazionali e le pagine facebook
come World Riots
24h (con varie foto dal posto) e OccupyBrazil.
Su twitter si possono seguire, tra gli altri, gli hashtag #OccupyBrazil e #ChangeBrazil.
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