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Il Blog di Rifondazione Comunista di Assisi


giovedì 27 giugno 2013

Le giuste battaglie si combattono sempre


di Franco Cesario

Che il Tar dell’Umbria abbia accettato o meno il ricorso (non tenendo conto della sentenza del Tar del Lazio che da molti è considerato come un tribunale che fa giurisprudenza nazionale più di altri) fatto per far si che fossero rispettate le quote di genere nella composizione della giunta del comune di Assisi, la battaglia affrontata in questi mesi è stata una lotta importante e dirimente, ideologica nel senso puro del termine ma non strumentale e di questo ogni cittadino democratico e progressista ne è convinto.
Ce lo dice la storia del nostro paese, fatta di abusi e soprusi nei confronti delle donne, di continue umiliazioni sul posto di lavoro e ce lo dice anche il perdurare della loro marginalizzazione nei posti di potere sia pubblici che privati.
Un dato di fatto, però, esiste: la legge n. 215 del 26 dicembre 2012 (su cui si basa tra l’altro una delle motivazioni principali con cui il Tar ha respinto il ricorso).
Essa stabilisce, tra le altre cose, un termine di 6 mesi per adeguare gli statuti comunali in modo che essi garantiscano una adeguata quota di genere nelle giunte e negli organismi delle partecipate del comune fino ad arrivare ad percentuale minima di 60 e 40: questo termine perentorio scadeva ieri 26 giugno 2013.
Il comune di Assisi, la sua amministrazione così solerte e ligia alle leggi, seppur impegnata a risolvere tutti i casi che si presentano nel territorio, ha adempiuto a questo obbligo di legge?

Crediamo proprio di no e questo conferma il totale disinteresse della giunta alle questioni di genere e conferma che la nostra battaglia era e continua ad essere più che fondata.

martedì 25 giugno 2013

Il sultano è nudo


di Dino Greco
Dunque il Tribunale di Milano non ha ritenuto credibile che Berlusconi – telefonando nottetempo in una caserma del capoluogo lombardo – volesse semplicemente scansare all’Italia un incidente diplomatico con l’Egitto per avere mancato di riguardo a quella che l’ex premier spacciava per la nipote di Mubarak; non ha creduto altresì – a differenza della maggioranza parlamentare della scorsa legislatura – che lo stesso ex premier fosse convinto di questa colossale bufala; non si è bevuto le menzogne prezzolate di karima “Ruby” el Mahroug e delle “Olgettine” sfilate davanti ai giudici per contraddire tutto quanto le intercettazioni avevano registrato dei loro più che eloquenti colloqui privati . Concussione e prostituzione minorile conclamate, dunque, per sette anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sarà anche solo il primo grado di giudizio, ma è un colpo da fare stramazzare un cavallo, perchè si salda alla condanna a cinque anni confermata in appello  dai giudici del processo Mediaset e precede prossimi non meno rilevanti appuntamenti giudiziari, a partire da quello di Napoli per corruzione e compravendita di parlamentari.
Benché la cosa non stupisca neppure più, considerando quale verminaio sia diventata la Destra del nostro Paese, destano ugualmente raccapriccio le reazioni di compari, famigli, corifei allevati alla corte del Sultano che ora strepitano come ossessi cianciando di “democrazia oltraggiata” (Malan), di processo politico che “neppure avrebbe dovuto essere celebrato” (Santanché).  Ma la cosa più grave (e davvero intollerabile) l’ha vomitata il piduista Fabrizio Cicchitto (tessera 2232 della loggia del venerabile Maestro Licio Gelli) che ha commentato il giudizio dei magistrati come una “sentenza da Tribunale speciale”. Cicchitto sa cosa fu il Tribunale speciale, sa quale fosse il regime che ignobilmente serviva e sa chi e come e perché dovesse perseguitare. Paragonare il feudatario di Arcore agli uomini e alle donne caduti sotto i colpi del fascismo è una porcheria che bisognerebbe fargli ingoiare insieme ai denti. Ma lui non se ne cura, neppure per decenza, così la lingua va via sciolta. Il megafono del Capo parla oscuramente del “complotto editoriale-finanziario” che avrebbe guidato la mano dei giudici, “criminalizzando insieme a Berlusconi nove milioni di italiani”. Parla di “anomalia dell’italia rispetto al resto d’Europa”, non rendendosi conto che è proprio Berlusconi “l’anomalia” che fa del nostro paese un “unicum” in Europa.
Ora tutti si interrogano sulle conseguenze politiche della sentenza. Berlusconi farà saltare il governo oppure tirerà dritto sperando di convincere il Pd ad una soluzione (sempre meno immaginabile) che lo tiri fuori dai guai. Certo è che se la tesi dei “falchi ” dovesse prevalere e il Pdl aprisse la crisi, vorrebbe dire che il Pd è davvero baciato da una immeritata fortuna e che gli si offrirebbe una doppia chance: quella di chiudere l’alleanza con la destra e di riconsiderare la propria politica di alleanze, tornando a guardare verso il gruppone grillino per provare a tirar fuori qualcosa di decente. Ma per dare corpo a questa ipotesi, non del tutto peregrina, bisognerebbe avere in testa un’altra politica, un’altra linea, diverse da quelle a cui i Democrat hanno immolato la propria sorte.

venerdì 21 giugno 2013

I firmatari del ricorso sulle quote di genere: ricorreremo al Consiglio di Stato.




Ospitiamo un comunicato dei firmatari del ricorso per le quote di genere contro il Comune di Assisi:

Una cosa è certa: ricorreremo al Consiglio di Stato. Ieri, 20 giugno, è stata depositata la sentenza relativa al secondo ricorso sulle quote rosa nella giunta del Comune di Assisi. Una sentenza che lascia interdetti, dal momento che il Tar dell’Umbria ha adottato un provvedimento in totale controtendenza con la giurisprudenza e la legislazione più recente.

Un provvedimento che stride fortemente, per di più, con quanto deciso recentemente dal Tar del Lazio che, bocciando la giunta di Civitavecchia, ha messo in guardia presidenti di regione e sindaci, sostenendo che per rispettare la parità non basta avere una donna, ma serve almeno il 40 per cento di donne nell’esecutivo. E questo indipendentemente da ciò che dice lo Statuto regionale o del comune. Una posizione rafforzata ulteriormente anche dall’entrata in vigore del Dpr 251 del 30 novembre 2012, a cui va riconosciuta una portata chiarificatrice e che ha esteso il discorso sulle quote rosa anche alle liste elettorali e alle società partecipate dal pubblico.

Evidentemente il Tar dell’Umbria non ha ritenuto doveroso tenere conto delle scelte in materia di pari opportunità che si stanno ormai diffondendo a macchia d’olio in Italia, nazione che deve recuperare un grande ritardo in tema di parità. Ha preferito continuare a ritenere che la politica sia un ambito destinato all’azione dei soli uomini, mentre le donne devono continuare ad accontentarsi esclusivamente della promozione di fumose iniziative che tendono al riequilibrio di genere.

Sembra incredibile, ma la sentenza del Tar dell’Umbria non considera “obbligatori” elementari principi di matrice costituzionale e comunitaria che, oltre a essere posti a tutela delle donne, garantiscono alle città organi di governo che rappresentino adeguatamente la sensibilità della cittadinanza, composta come noto da donne e uomini. Si arriva a teorizzare che la politica non debba premiare il merito e le capacità, ma altri imprescrutabili fattori.

Il Tar dell’Umbria, con questa sentenza, è riuscito solamente ad avallare il grado di arretratezza di chi, a destra come a sinistra - e nel nostro caso il sindaco di centrodestra Claudio Ricci - ancora mette in dubbio che una donna possa avere capacità dirigenziali e organizzative pari o superiori a quelle di un uomo.

Poiché siamo convinti che la battaglia per la rappresentanza di genere paritaria sia una battaglia di democrazia che tutte le donne e tutti gli uomini delle istituzioni devono combattere insieme, al di là di ogni appartenenza politica, non riuscendo a far valere i nostri più elementari diritti nella nostra regione, usciremo dunque dai confini dell’Umbria per avere giustizia.



I firmatari del ricorso

#OccupyBrazil



Di Domenico Musella
Di neoliberismo si muore. Di ingiustizia si muore. Di neoliberismo e di ingiustizia (strettamente correlati) si protesta.
Come in Grecia, come in Spagna, come in Turchia, come un po’ ovunque, la gente del Brasile è stremata e scende in piazza. Anche se la stampa tende a circoscrivere e relativizzare i motivi, è l’intero sistema politico-economico-sociale che mostra sempre più palesemente il suo fallimento e che è messo in discussione da questi continui sommovimenti che avvengono nel mondo a catena, come i tasselli cadono l’uno dopo l’altro nel gioco del domino.
Centinaia di migliaia di persone (almeno 250mila secondo gli organizzatori) hanno invaso le strade di numerose città e località del Paese, già da martedì della scorsa settimana ma con un picco, finora, avvenuto lunedì 17.
 Il giorno in cui Rio de Janeiro e San Paolo, le principali metropoli, e un’altra decina di grandi città hanno visto immense manifestazioni pacifiche, e a Brasilia un gruppo di manifestanti ha preso d’assalto il Palazzo del Congresso Nazionale (il Parlamento) occupando la cupola dell’edificio. Anche altre sedi di governo locali sono state temporaneamente occupate, mentre gli incendi e i danni ai negozi sono stati relativamente pochi. La composizione della gente scesa in piazza è eterogenea, come in molte di queste ultime proteste in tutto il mondo. Il malcontento e l’indignazione sono trasversali e generalizzati, è complicato etichettarli. Si scende in strada per i diritti fondamentali, per la dignità. Si scende per tutti, e con tutti: studenti e pensionati, lavoratori e disoccupati, utenti degli autobus come automobilisti. Ancora una volta, la repressione è stata la principale arma che le autorità hanno trovato per rispondere al malcontento popolare, che invece nasce disarmato e nonviolento. Diverse centinaia sono i feriti negli scontri che proseguono anche in queste ore, un centinaio gli arresti. Da parte di polizia militare e truppe choque (“d’assalto”), spesso nervose e testarde, si è fatto largo uso di proiettili di gomma, spray urticanti e gas lacrimogeni.  Diretti ai manifestanti, ai giornalisti, ma anche a passanti o ciclisti non coinvolti nella protesta. Questo soprattutto a San Paolo, dove il Ministero della Giustizia sta conducendo un’inchiesta sull’eccessiva violenza utilizzata dalle forze dell’ordine. In un interessante videoreportage di TvFolha, la web tv del quotidiano Folha de São Paulo, viene denunciata la brutalità della polizia nella metropoli brasiliana, in particolare nelle giornate di martedì e giovedì scorso, sentendo anche le voci di alcuni protagonisti, come una giornalista della stessa testata colpita all’occhio da una pallottola di gomma. Ma come mai, è legittimo chiedersi, Paesi come il Brasile (e la Turchia) sono teatri di contestazione, proprio quando cominciano ad affacciarsi tra le grandi potenze mondiali, e registrano successi nella loro crescita economica?
La risposta è insita nella domanda. Gli squilibri che portano alle rivolte non avvengono nonostante la crescita economica, ma proprio a causa di essa. È lo stesso paradigma del neoliberismo, verso cui anche i cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” si rivolgono, che non regge più. La popolazione sta vivendo sulla propria pelle le conseguenze del considerare come fine unico la “ricchezza”, peraltro concentrata nelle mani di pochi e mai distribuita, e dell’accettare che per perseguirla ogni mezzo sia buono, non importa che questo leda i diritti, cacci le persone dalle proprie case, metta a rischio le minoranze…  
Certo, per mobilitare le grandi masse servono le contraddizioni estreme e palesi, le gocce che fanno traboccare i vasi. Il Brasile ne ha avute di recente due in particolare, aldilà della crisi globale, per far scendere in piazza folle che non si vedevano da 20 anni (nel 1992 la popolazione verdeoro protestò in tutto il Paese contro il governo corrotto di Fernando Collor de Mello e lo mandò a casa). Da un lato, laumento delle tariffe di un servizio di  trasporti inefficiente, ennesimo caso in cui si cercano nelle tasche dei cittadini i soldi non investiti dalle amministrazioni per i servizi di base. In particolare, nella metropoli di San Paolo il prezzo del biglietto degli autobus, ha visto un ennesimo rincaro da 3 réis a 3 réis e 20. Dall’altro lato, a fronte del mancato investimento in servizi essenziali, ci sono i miliardi spesi per organizzare dei grandi eventi sportivi. Stiamo parlando della Confederations Cup in corso in questi giorni, dei Mondiali di calcio del 2014 e dei Giochi Olimpici del 2016 (qualche giorno fa vi abbiamo segnalato questa intervista al disegnatore Carlos Latuff sulla speculazione immobiliare legata a tali eventi). Immaginate cosa significhi per un brasiliano essere costretto a protestare contro delle kermesse del calcio mondiale: la situazione deve essere davvero estrema.
Não é por vinte centavos, é por direitos (“Non è per i 20 centesimi, è per i diritti”) è lo slogan letto e ascoltato a San Paolo e nelle piazze brasiliane. Questo perché innanzitutto sono ben altre le cifre in discussione (33 miliardi di réis per la Confederations Cup, 26 per le Olimpiadi, 50 quelli che se ne vanno in corruzione, mentre il salario minimo è di 678 réis). Ed inoltre perché la protesta riguarda la dignità della popolazione, riguarda la sacrosanta pretesa di veder spesi i soldi dello Stato prima di tutto per i diritti essenziali che mancano, facendo posizionare il Brasile 85° nel ranking dellIndice di Sviluppo Umano (ISU), molto indietro rispetto ad altri Paesi dellarea.
In Brasile (ma non solo) la linea continua a essere l’inseguimento di “grandi” eventi e “grandi” opere che tuttavia, oltre ad un’enorme allucinazione collettiva e a un effimero guadagno d’immagine creano vantaggi solo per piccoli (anzi, piccolissimi) gruppi di persone, quelle che meno avrebbero bisogno di essere aiutate, oltre che danni. In un video che sta circolando molto nella rete, la regista brasiliana Carla Dauden, trapiantata negli Usa, spiega perché è necessario boicottare i Mondiali del 2014:
Tanti sono i conflitti aperti in Brasile in questo momento.
La questione dei popoli indigeni. Appena lo scorso anno i nativi occupavano le sale del Parlamento, oggi scendono di nuovo in strada. Le diverse popolazioni originarie che convivono in Brasile sono minacciate da grossi progetti distruttivi, come l’enorme diga sul fiume Xingu destinata ad alimentare la centrale idroelettrica di Belo Monte (nello Stato settentionale del Parà). Il governo federale, oltre a dare il via libera a tali progetti, cerca in tutti i modi di disporre delle terre che appartengono agli indigeni.
Laccesso a sanità e istruzione. L’analfabetismo raggiunge vette simili a quelle di Bolivia e Paraguay (i Paesi più poveri dell’America Latina): circa il 10% (i semi-analfabeti sono attorno al 20%). Il sistema scolastico pubblico è uno dei peggiori del mondo, così come quello sanitario, assolutamente insufficiente ai bisogni della popolazione in molte zone del Paese. In questi settori, basilari, è netta la disuguaglianza sociale: chi ha i soldi accede a scuole private o può stipulare polizze sanitarie, mentre la stragrande maggioranza delle persone, con reditti bassissimi o medio-bassi, ha pochissime garanzie.
Il diritto alla casa è fortemente leso, complice una devastante speculazione immobiliare che favorisce le grandi imprese e chi una casa può permettersela. Tutto ciò si è aggravato negli ultimi tempi, soprattutto nelle zone periferiche, nei quartieri a maggioranza nativa e nelle favelas: i terreni sono espropriati, gli inquilini sfrattati e le case abbattute (senza assistenza o soluzioni alternative) per far spazio agli impianti sportivi e alle megastrutture di Mondiali e Olimpiadi. Ubi grande opera, gente povera cessat.
Sommiamo a tutto questo i problemi relativi al trasporto pubblico inefficiente, alla criminalità, alla diffusa povertà, alla corruzione dilagante. Un mix esplosivo che, con la crescente inflazione e la crisi globale, costituisce il retroterra delle dimostrazioni di questi giorni (a tal proposito è ‘interessante larticolo di Peter Storm su ROARmag).
Dal canto suo la presidente Dilma Rousseff, che come ricordiamo è membro del PT – Partito dos Trabalhadores(lo stesso del suo predecessore e ispiratore, lo stesso di Luiz Inácio Lula da Silva), in una dichiarazione pubblica ha riconosciuto la legittimità delle richieste dei manifestanti rispetto alle carenze del Paese, parlando di «vitalità della democrazia brasiliana» e di «Paese che con queste manifestazioni diventa più forte». Non esprimendosi, tuttavia, in merito alla repressione, né facendo passi indietro rispetto ai miliardi per i grandi eventi o alle grandi opere. Il capo di Stato (che ieri ha partecipato ad un vertice su #OccupyBrazil a San Paolo con il sindaco Haddad e l’ex presidente Lula) ha inoltre ribadito che il governo continua ad essere impegnato nel «cambiamento del Paese». Se le va dato atto che una parte della popolazione ha migliorato le condizioni di vita, andando al di sopra delle soglie di povertà, da quando Lula e poi la Rousseff sono al potere, è vero anche che finora lo sforzo non è stato all’altezza delle grandi aspettative. Le logiche di speculazione senza controllo e di repressione del dissenso sono rimaste. La socialdemocrazia si è dimostrata fallimentare nel suo non andare realmente oltre i meccanismi, superati, di questo sistema economico e sociale che da anni esprime le sue contraddizioni in America del Sud.
Per restare aggiornati sullevoluzione delle proteste, consigliamo di seguire il quotidiano Folha de São Paulo che ha anche unedizione in inglese ed una in spagnolo, le agenzie internazionali e le pagine facebook come World Riots 24h (con varie foto dal posto) e OccupyBrazil.
Su twitter si possono seguire, tra gli altri, gli hashtag #OccupyBrazil e #ChangeBrazil.


martedì 18 giugno 2013

Benvenuto compañero presidente Nicolás Maduro



Il Presidente della Repubblica  Bolivariana del Venezuela, arriva nel nostro Paese per assistere alla Conferenza della FAO dove riceverà un riconoscimento per la politica alimentaria del Venezuela nella sua lotta contro la fame. I risultati ottenuti dal processo di trasformazione condotto del governo bolivariano sono tangibili e riconosciuti a livello internazionale.
Il Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea dà il benvenuto a  Nicolás Maduro, Presidente eletto democraticamente in un processo elettorale riconosciuto dal mondo intero per la sua trasparenza e correttezza e che ha dovuto affrontare la violenta reazione di alcuni settori dell’opposione che non accettano la sconfitta e non vogliono riconoscere la volontà popolare che sceglie il cammino della Rivoluzione Bolivariana, tracciato dallo scomparso Comandante Hugo Chávez Frías.
Un cammino di liberazione costruito insieme ai processi rivoluzionari che realizzano i  governi socialisti dell’ALBA, basato sui principi di cooperazione solidale, complementare, ed egualitaria, antimperialista ed anticapitalista, che sta emancipando l‘intero continente dall’imperialismo e dai diktat del Fondo Monetario Internazionale.
In questa occasione inviamo un abbraccio al processo che vive la República Bolivariana del Venezuela e diciamo al suo popolo che in questa Italia colpita dal capitalismo selvaggio, la sinistra  anticapitalista mantiene alta la sua bandiera  di lotta per il socialismo.
Alziamo le nostre bandiere per salutare il compagno Presidente Nicolás Maduro da tutti gli angoli della nostra terra ed appoggiare il processo bolivariano, lottando per un’Italia ed un mondo con giustizia sociale.
Rifondazione Comunista, da sempre a fianco del processo rivoluzionario bolivariano sarà presente a Roma lunedì 17, alle ore 19,30 presso la “Sala delle carte geografiche” per portare il suo saluto al Presidente Maduro ed alla delegazione del governo bolivariano.
Viva la Rivoluzione Bolivariana !
Roma 14-6-2013
Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

Bienvenido  compañero presidente Nicolás mMduro
El Presidente de la República Bolivariana de Venezuela llega a nuestro país para asistir a la Conferencia  de la FAO, donde recibirá un reconocimiento por la política alimentaria de Venezuela en su lucha en contra del hambre. Los resultados logrados dentro del proceso de transformación guiado por el gobierno Bolivariano son  tangibles y reconocidos a nivel internacional.
El Partido de la Refundación Comunista – Izquierda Europea da su bienvenida a Nicolás Maduro, Presidente electo democráticamente, bajo un proceso eleccionario reconocido por el mundo entero  por su transparencia y rectitud y que ha tenido que enfrentar la violenta reacción de algunos sectores de la oposición que no se conforman con su derrota y que no quieren reconocer la voluntad popular que elige seguir el camino de la Revolución Bolivariana trazado por el fallecido Comandante Hugo Chávez Frías.
Un camino de liberación construido junto a los procesos revolucionarios que impulsan los gobiernos socialistas del ALBA, basado en los principios de cooperación solidaria, completaría, igualitaria, antiimperialista y anticapitalista que está emancipando el continente entero contra el imperialismo y los dictámenes del Fondo Monetario Internacional.
En esta ocasión enviamos un abrazo al proceso que vive la República Bolivariana de Venezuela y decimos a su pueblo que en esta Italia  lastimada hoy por el capitalismo salvaje, la izquierda anticapitalista mantiene alta su bandera de lucha por el socialismo.
Levantamos nuestras banderas para saludar al compañero Presidente Nicolás Maduro desde los más diversos rincones de nuestra tierra, y apoyar el proceso bolivariano luchando por una Italia y un mundo con justicia social.
Refundación Comunista, desde siempre al lado del proceso revolucionario bolivariano, se hará  presente en Roma, a las 19,30 en la “Sala delle carte geografiche” para llevar su saludo al Presidente Maduro y a la delegación del Gobierno Bolivariano.
Viva la revolucion bolivariana!
Roma 14-6-2013
Partido de la Refundacion Comunista – Izquierda europea


di Gennaro Carotenuto 

Il presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela, Nicolas Maduro, ha ricevuto oggi alla FAO, a Roma, il riconoscimento assegnato al paese per i grandi avanzamenti nella lotta alla fame.

Rispetto ai governi neoliberali degli anni ’90, appoggiati dall’FMI, dagli USA e dalla grande stampa monopolista, la quota di venezuelani che patiscono la fame durante i governi di Hugo Chávez è crollata da quasi il 16% a poco più del 2%.
È significativo che tale riconoscimento venga concesso dalla FAO quando i media internazionali sono impegnati in una campagna di destabilizzazione che fa leva sulla presunta mancanza di prodotti di prima necessità. Nulla di nuovo: si tratta delle stesse campagne di aggiotaggio e diffamazione che colpivano il governo Allende in Cile.

lunedì 17 giugno 2013

Forum con Ferrero sul futuro di Rifondazione


Romina Velchi: Le amministrative hanno premiato il Pd, ma anche le liste di sinistra alternative sono andate bene. Che conclusione ne trai?
Ferrero: Innanzitutto il risultato più significativo delle amminsitrative è stata l’astensione che ci parla del fatto che metà della popolazione non pensa che la politica possa essere utile per risolvere i problemi che vive. In questo contesto di profonda sfiducia e drammatica lacerazione democratica, il risultato delle aggregazioni di sinistra esterne al centro sinistra ci parla di una possibilità. Dove queste aggregazioni hanno avuto la capacità di mettere insieme esperienze diverse, hanno avuto buoni risultati. In alcuni casi si trattava di aggregazioni tra forze politiche (Rifondazione e SEL, penso ad Ancona, Imperia e Avellino). In altri casi (Siena, Pisa, Isernia, Roma, Messina) si trattava di aggregazioni tra Rifondazione Comunista e forze di movimento o associative. Ecco, il punto fondamentale mi pare questo: in Italia l’esperienza delle amministrative ci parla della possibilità di dar vita ad una soggettività di sinistra, che nella misura in cui coinvolge in forme democratiche e paritarie il complesso delle forze che si pongono il problema dell’alterntiva, hanno una massa critica sufficiente a fare politica e a diventare un vero punto di riferimento, anche per elettori che alle politiche hanno votato M5S. Questo mi pare il punto politico da valorizzare.
Anna Maria Carlucci: Vorrei sapere se almeno alle elezioni europee si può fare una lista unitaria di tutti i micropartitini comunisti (Sinistra Popolare, Sinistra Ciritica, PCL, FdS) o se Rifondazione vorrà magari appoggiare da sola una eventuale candidatura di Ingroia al Parlamento europeo.
Ferrero: Rifondazione ha proposto e lavora per costruire anche in vista delle elezioni europee una aggregazione politica della sinistra antiliberista e anticapitalista. Riteniamo cioè necessario dar vita ad una aggregazione e ad una lista che si ponga in netta opposizione rispetto alle politiche di austerità praticate a livello europeo. In questo quadro abbiamo proposto che l’aggregazione di questo soggetto di sinistra non avvenga attraverso accordi o patti di vertice (tutti quelli fatti sin qui, dalla Federazione della Sinsitra a Rivoluzione Civile non hanno funzionato) ma attraverso un processo democratico e partecipato sul principio di una testa un voto. Nella misura in cui questa proposta sarà condivisa si riuscirà a costruire una lista unitaria della sinistra che trovi nel gruppo parlamentare europeo del GUE e nella Sinistra Europea il proprio punto di riferimento. Rifondazione Comunista infatti ha storicamente fatto parte in Europa del GUE ed è tra i fondatori in Europa del Partito della Sinistra Europea, di cui fanno parte anche SYRIZA, la LINKE, il Front de Gauche, Izquierda Unida, etc. Il nostro obiettivo per le elezioni europee è quindi di dar vita ad una aggregazione unitaria della sinistra italiana che faccia riferimento alla sinistra antiliberista e anticapitalista europea, autonoma e alternativa alle destre ma anche al partito socialista europeo che delle politiche di austerità è purtroppo protagonista.
Velchi: Ma perché in Italia è così difficile fare come in Grecia o in Spagna una Syriza o una Izquierda Unida?
Ferrero: Potrà sembrare strano ma io penso che il primo problema risiede nel sistema elettorale: il bipolarismo spinto ha determinato regolarmente la spaccatura della sinistra di alternativa tra chi riteneva necessario accordarsi con il Centrosinistra e chi riteneva necessario non fare accordi. Se guardi alle scissioni di Rifondazione Comunista nel corso della sua storia sono avvenute tutte su questo terreno, del rapporto col governo o con il PD. Non abbiamo mai litigato seriamente sui contenuti ma sulla collocazione politica. Anche l’ultima scissione di SEL è avvenuta su questo: la sinistra va costruita fuori o dentro il centrosinistra? Questo fatto è stato assai pesante e io penso che se avessimo un sistema elettorale proporzionale oggi la sinistra in questo paese avrebbe percentuali a due cifre, perché probabilmente in questi vent’anni sarebbe stata sempre all’opposizione e avrebbe potuto crescere come ha fatto il PCI nella prima repubblica. Detto questo è evidente che hanno pesato i nostri errori. La scelta attuata da Rifondazione Comunista di entrare nel governo Prodi nel 2006 ha a mio parere consumato in modo molto pesante i rapporti a sinistra e la successiva scissione di SEL ha ulteriormente aggravato il quadro. Inoltre, l’incapacità che abbiamo avuto sin’ora di costruire forme convincenti sul piano democratico e partecipato di unità a sinistra ha fatto il resto. Per questo credo che la strada per costruire anche in Italia un polo della sinistra di alternativa deve prevedere un processo democratico, partecipato, basato su una testa un voto e non sistemi di accordi di vertice che alla fine lasciano l’amaro in bocca a tutti. Basti pensare a come ha funzionato concretamente l’ultima disastrosa esperienza di Rivoluzione Civile.
Tonino Bucci: Nell’opinione pubblica è come se Rifondazione comunista fosse sparita. Dopo il risultato deludente della lista Rivoluzione civile, il partito non ha dato nessun segnale forte all’esterno all’indomani delle elezioni. Ci sarà un congresso, ormai dopo l’estate, è stato fatto qualche seminario, ma tutto si svolge all’interno del corpo militante, per altro sempre più esiguo. I tempi con i quali i partiti nascono e scompaiono sulla scena pubblica sono sempre più rapidi. Il destino delle forze politiche si misura anche sulla capacità di stare negli eventi, di muoversi nella comunicazione, di cogliere il disagio di un elettorato stanco. Non sarebbe ora di dare un segnale di discontinuità?
Ferrero: Caro Tonino, in primo luogo quando si subisce una sconfitta a me pare necessario capire bene quali sono le sue cause. Soprattutto in una situazione in cui il gruppo dirigente aveva nella sua larga maggioranza condiviso ogni passaggio della preparazione delle elezioni. Ragionare, scavare e discutere non è quindi un esercizio inutile ma la condizione per evitare di ripetere immediatamente gli stessi errori o di porre semplicemente il tema del cambiamente senza sapere dove andare e per fare cosa. Per questo la Direzione Naizonale, nello sbandamento seguito alla sconfitta, ha detto due cose molto chiare: in primo luogo che Rifondazione Comunista non andava gettata nel cestino ma rilanciata. In secondo luogo che il progetto di costruzione della sinsitra di alterntiva – esterna al centro sinsitra – doveva porsi su un terreno di partecipazione democratica evitando di ripetere le strade verticiste della Federazione della Sinistra o di Rivoluzione Civile. In questi giorni faremo un secondo passo attraverso la proposta di una campagna di massa sull’uscita dalla crisi che vede nella proposta di un piano del lavoro per due milioni di posti e nel tema centrale della redistribuzione del reddito i punti fondamentali. Ci stiamo quindi predisponendo a riprendere in modo allargato l’iniziativa politica del partito dopo la tornata delle elezioni amministative che ha visto impegnate numerose federazioni. Ovviamente considero un handicap grave il fatto che gli organismi dirigenti di Rifondazione Comunista si siano divisi dopo il voto. Se questo non fosse avvenuto, sarebbe ovviamente stato possibile essere molto più rapidi ed efficaci nel rilancio e nella ridefinizione del progetto di Rifondazione. Purtroppo così non è stato.
Giorgio Salerno: Caro Ferrero, non ho mai sentito da lei una sola parola sull’unificazione con il PdCI. Mi pare che la sua linea sia quella di costruire una aggregazione della sinsitra di alternativa. Ed i comunisti in Italia che devono fare? sciogliersi nella sinistra di alternativa? Non sarebbe opportuno cominciare ad unire i più vcini e poi vedere di allargarsi all’esterno?
Ferrero: Io sono d’accordo che occorre cominciare ad unire i più vicini. Infatti con la Federazione della Sinistra abbiamo messo insieme Rifondazione, PdCI, Socialismo 2000, e lavoro e Solidarietà. Il problema è che questa aggregazione si è sfasciata nel luglio dello scorso anno, in vista delle elezioni perché il PdCI ha scelto di andare a trattare con il PD sulla possibilità di stare dentro il centro sinistra. Dopo una fase di unità ci siamo quindi divisi sullo stesso motivo che aveva determinato la scissione del PdCI da Rifondazione Comunista. Dopo questa generosa esperienza risulta evidente che non basta chiamarsi comunisti per essere vicini: un partito o un soggetto politico si fa sulla base di una comune analisi di fase e di un comune progetto politico. Io sono per fare l’unità con chi ritenga necesasrio aggregare  la sinistra fuori dal centro sinistra, su un proprio progetto politico autonomo e non di fare la sinistra del centro sinistra. Per questo io continuo a dire che il punto fondamentale è l’autonomia della sinistra, cioè la concreta collocazione politica, non se ci si chiama comunisti o meno. Del resto questo è quanto è avvenuto in tutto il mondo: in Europa come in America Latina, le aggregazioni non sono avvenute su base ideologica ma sulla base dei progetti e della collocazione politica. La sinistra antiliberista e anticapitalista si è aggregata in America Latina come in Europa sulla base della propria autonomia politica, comprendendo comunisti e non comunisti. Spero di essere stato chiaro: il punto fondamentale, quello che definisce chi è vicino e chi è distante, è la collocazione politica concreta nel sistema politico e nelle relazioni sociali.
Mirella Lannutti: Caro Ferrero, ti faccio una domanda che sarebbe piaciuta anche a mio marito Giancarlo: siccome sono stufa di vedere le nostre percentuali di voto tra l’1 e il 2, ti chiedo: per caso, hai in mente una strategia per risalire magari tra il 4 e il 5? Grazie
Ferrero: Sì e si basa su tre punti. In primo luogo avanzare un progetto chiaro di proposte per l’uscita dalla crisi economica e sociale in cui viviamo. Nelle prossime settimane dovremo essere in grado di avanzare una proposta concreta che ci permetta di fare battaglia politica in tutto il paese che evidenzi in modo chiaro che la strada per uscire dalla crisi c’è e che se non viene praticata è perché i poteri forti non vogliono mettere in discussione i propri privilegi. Una proposta concreta quindi basata sulla redistribuzione del reddito, del lavoro, del potere e sulla riconversione ambientale dell’economia. Non posso qui dilungarmi ma il primo punto è questo: definire chiaramente Rifondazione Comunista come il partito che pone con chiarezza una strada concreta e praticabile per uscire dalla crisi, anche superando il feticcio europeista per cui tutto quello che arriva da Bruxelles è legge. Per uscire dalla crisi è necessario disobbedire a Bruxelles e rimettere al centro la sovranità popolare, a partire da quella del popolo italiano. In secondo luogo occorre costruire un fronte sociale che sia in grado di costruire conflitto sociale efficace contro le politiche di austerità. Uno dei disastri italiani è la sostanziale assenza di conflitto a fronte di un attacco durissimo alle condizioni di vita della gente. Operare quindi in tutti i modi possibili per costruire il conflitto, la solidarietà, le pratiche di mutualismo per evitare che la gente viva nella solitudine e nell’impotenza il peggioramento delle proprie condizioni di vita. In terzo luogo lavoriamo per costruire una sinistra di alternativa che aggreghi quelle centinaia di migliaia di persone che in Italia si impegnano in mille forme diverse contro il liberismo e l’austerità. Progetto di uscita dalla crisi, costruzione del conflitto e aggregazione della sinistra sono i tre punti con cui io penso sia possibile togliere dalla minorità la nostra proposta politica.
Maria R. Calderoni: caro segretario, sento dire da più parti, inclusi i nostri organismi dirigenti, che è necessario costruire un nuovo soggetto a sinistra, un soggetto ovviamente più bello e più forte che pria. Chiedo: con o senza Prc? E, nel caso, chi che cosa come dove quando? Grazie ciao
Ferrero: Cara Maria Rosa, io penso che un soggetto della sinistra antiliberista e anticapitalista debba essere costruito da tutti e tutte coloro che si riconoscono in un progetto di alternativa, compresi quindi i compagni e le compagne di Rifondazione. L’auspicabile nascita di questo soggetto attraverso un percorso democratico non mette in discussione l’esistenza di Rifondazione Comunista. In molti paesi è avvenuto questo processo: Izquierda Unida non ha sciolto il Partito Comunsita Spagnolo, il Front de Gauche non ha sciolto il Partito Comunista Francese, per non parlare delle esperienze latinoamericane. Rilanciare Rifondazione Comunista nel contesto della costruzione di una soggettività della sinistra di alternativa mi pare la cosa da fare: né isolamenti né sciogliementi o abiure.
Mario Fiorentino: Per difendersi dall’euro gli strumenti sono nazionali, che si fa?
Ferrero: si tratta di attuare una strategia di disobbedienza attiva. In primo luogo disobbedire ai trattati e forzare l’interpretazione degli stessi. Ad esempio non applicare il fiscal compact e le direttive privatizzatrici. In secondo luogo si tratta di mettere al riparo il finanziamento del debito pubblico dalla speculazione finanziaria internazionale. A questo riguardo stiamo lavorando su un progetto articolato che riguarda il ruolo attivo della Banca d’Italia, della Cassa depositi e prestiti, etc. Si tratta quindi di disobbedire attivamente mettendo per questa via in discussione il funzionamento dell’Unione europea e ponendo quindi le condizioni per una sua radicale ridefinizione o per la sua rottura nel caso in cui i potentati neoliberisti fossero indisponibili a qualsiasi modifica.

martedì 11 giugno 2013

Sabato 15 raccolta firme legge "Rifiuti Zero"


I mal di pancia all’interno della maggioranza sul bilancio 2013 non possono essere derubricati in maniera sbrigativa dal sindaco Ricci né tanto meno ci si può appellare ad una generica “disciplina di maggioranza” per richiamare all’ordine quei consiglieri che, legittimamente (magari per i motivi più disparati) dissentono dalla linea dettata dagli amici di partito.
Emergono da più parti diverse problematiche che questa giunta sembra non sapere, o volere, affrontare in maniera decisa e risolutiva; e non si tratta solo del bilancio, argomento sicuramente dirimente, ma anche il PRG e ora anche la raccolta differenziata.
Ci giungono segnalazioni da Tordandrea e Petrignano sul persistere della caoticità del porta a porta.
Addirittura si vocifera di una cattiva gestione della differenziata, che verrebbero mischiati senza la minima cura, in barba alla pazienza e alla collaborazione dei cittadini che cercano di svolgere al meglio la separazione dei rifiuti.
Questi legittimi dubbi hanno portato molti cittadini a chiederci espressamente di adoperarsi affinché sia presentata in consiglio comunale una precisa interrogazione per fare chiarezza, una volta per tutte, su questo spinoso argomento: abbiamo chiesto pertanto al consigliere Marcucci, che ci rappresenta in Consiglio Comunale e che ha immediatamente condiviso l’iniziativa, di aiutarci in questo compito.
Da sfondo a questo scenario i desolanti dati della raccolta differenziata pubblicati in questi giorni dalla Regione Umbria che vedono la città di Assisi fra gli ultimi posti, con appena il 23%, fra le maggiori città umbre.
Anche per questi motivi sabato pomeriggio dalle 15,00 alle 19,00 saremo in piazza a S. Maria degli Angeli per raccogliere le firme per presentare in parlamento un disegno di legge di iniziativa popolare sui “Rifiuti zero”, un testo elaborato da varie associazioni e comitati per dare organicità alla gestione del ciclo dei rifiuti.
Invitiamo tutta la cittadinanza e tutti le associazioni e i movimenti sensibili a questo tema a partecipare.


giovedì 6 giugno 2013

Il nemico che serve a Grillo




di Marco Sferini 


Non c’è bisogno di ripeterlo, ma tant’è lo ripetiamo tutti: Beppe Grillo sa come muoversi davanti alle telecamere. Ufficialmente non ne vuole nemmeno una ai suoi comizi, tranne quella che lo proietta nella rete di Internet e lo fa vedere “urbi et orbi” e che è sempre sul palco sorretta da un suo sostenitore.
Eppure Grillo, che lamenta di essere censurato e di veder maltrattato il movimento 5 Stelle, è il convitato di pietra – neppure tanto di pietra… – di ogni programma di intrattenimento politico, di ogni “talk show”. Lo è sempre, e lo è perché rifiuta di partecipare a questi momenti di confronto, secondo la strategia comunicativa di Casaleggio e della sua agenzia.
Ma allora perché, essendo uno dei più gettonati leader politici in tv, si percuote il petto e si lancia nella nenia della persecuzione giornalistica? Perché tutto questo vittimismo?
Credo che la risposta sia molto semplice: perché anche questo fa apparire eroico sia lui che il suo movimento. Senza individuare un qualunque nemico, un avversario irriducibile, come potrebbe mai suonare la grancassa dell’ “avanti miei prodi”, verso una rivoluzione italiana tanto promessa e tanto impossibilitata a concretizzarsi secondo lo schematismo e l’immobilismo grillino?
Ogni fenomeno insufficiente a sé stesso ha bisogno sempre, per mostrarsi, dimostrarsi e avanzare, di un nemico cui poter fare riferimento e al quale gridare nei momenti di difficoltà.
Dopo la cocente sconfitta delle elezioni amministrative, dove il movimento 5 Stelle ha più che dimezzato i voti a Roma e perso oltre tre quarti dei consensi nelle più grandi realtà che andavano al voto, è naturale intanto la minimizzazione del comico genovese che fa la distinzione – peraltro opportuna – tra piano locale e piano nazionale; ed è poi altrettanto naturale l’accusa di essere stato oscurato nella proposta del suo programma politico da televisioni, Internet, radio, mass media in generale.
La seconda è una bugia grande quanto il mare oceano; la prima è un’osservazione, come dicevo, opportuna che però deve tenere conto della particolarità del voto dato al movimento 5 Stelle.
Non siamo davanti ad un consenso “rigido”, ad un consenso – per usare le parole di un tempo – “ideologico”: lo stesso movimento e lo stesso comico si definiscono né di destra, né di centro, né di sinistra. Una novità dunque che, se si trattasse di fare un paragone, sarebbe simile a qualcosa di angelico, asessuato, privo quindi delle caratteristiche umanamente conosciute: qui, politicamente conosciute.
Questa pretesa di verginità politica è la prima presunzione confutabile del movimento: non è vero che non è di destra, né di sinistra o centro. E’ un movimento assolutamente classificabile ogni volta che si esprime.
Se una deputata in aula sostiene che a determinati giornalisti “bisognerebbe dare l’olio di ricino”, in quel momento è legittimo sostenere che sta parlando con un linguaggio quanto meno aggressivo, muscolare, anche storicamente poco opportuno al contesto parlamentare repubblicano, quindi offensivo e di destra? Non perché tutto quello che proviene da destra sia offensivo: ma di certo molte cose sono offensive per l’uguaglianza dei diritti sociali e civili.
Quando Grillo in persona, fingendosi faceto, si rivolge ai giornalisti e ne fa un elenco verbale e – sempre minimizzando per poter replicare o confutare le “cattive” e “maliziose” interpretazioni – dice che prima o poi farà i conti con Giovanni Floris, Corrado Formigli e i loro programmi, possiamo dire con assoluta liceità che fa un attacco immorale, incostituzionale, quindi una prova di forza anche solo verbale contro un elemento cardine della libertà democratica: l’espressione delle idee e il diritto di cronaca?
La strategia è lontana mentre la tattica la si vede fin troppo bene: “Ci prenderemo il Paese ad ottobre” dice il capocomico.
Probabilmente ha ragione nel calcolare gli effetti disastrosi di una crisi economica che il liberismo sta spingendo sempre più in avanti e contro le categorie sociali più deboli del Paese. Del resto anche la CGIL ha dimostrato numeri alla mano che occore una sessantina di anni per tornare a degli standard di minima decenza nei trattamenti del lavoro, nelle percentuali produttive e di rispetto dei salari che si avevano negli anni ’70 e ’80.
Il livello della disoccupazione è destinato a crescere e quindi non c’è salvezza per le proposte sensate, ragionate, soppesate in base ai rapporti di forza esistenti nell’agone sociale, politico ed economico.
C’è spazio, tanto spazio, per la presunzione, per l’arroganza, per lo “stile di Grillo”: lo dicono i suoi deputati e i suoi senatori. Lui parla così. E del resto potrebbe mai parlare diversamente? Lo potete immaginare seduto tra gli altri leader politici e sindacali a discutere?
La prevaricazione del tono della sua voce è appunto tale, è unidirezionale, non ammente contraddizione o risposta. Accetta solo l’urlo della piazza che grida sempre il solito mantra: “Tutti a casa!”.
E naturalmente il nemico numero uno è chi critica o adombra incongruenze tra il dire il fare del movimento 5 Stelle. Non è permesso criticare, non è concesso stigmatizzare nulla.
Se lo fai, ti becchi Crimi per strada che ti dice: “Voi (giornalisti) avete crato un castello di carta che serve a voi stessi”, o frasi simili. La colpa non è nostra, dice Crimi, i cattivoni siete voi. Sempre e solo voi.
L’anomalia politica di questo Paese ora, dunque, contempla oltre a Berlusconi a destra e oltre a quel curioso mai riuscito esperimento di fusione di politicismo cattolico e socialdemocratico chiamato “Partito Democratico” nell’alveo del centrosinistra, anche il grillismo tra mito, leggenda e speranza che ancora una volta sarà delusa.
L’Italia guarda “Striscia la notizia” e sogna i vendicatori più o meno mascherati di Antonio Ricci dalla tv e dal palco delle piazze il nuovo messia, il nuovo conducator di un Paese alla deriva morale, alla deriva politica e anche e soprattutto ad una deriva culturale.
Non c’è salvezza politica senza salvezza sociale, e non c’è politica buona senza un livello di civismo tale da poterla produrre.
Qui si inserisce il deficitarismo della sinistra italiana che va ricostruita. Ma questo vulnus non è del tutto politico: ha radici anche in un monoculturalismo che ha fatto di noi comunisti molto spesso dei soggetti dogmatici, dei cloni di altre generazioni scomparse.
Abbiamo esercitato noi per primi, in tutti questi ultimi anni, una presunzione enorme nel dirci e considerarci la forza di rappresentanza politica dei lavoratori e sapevamo benissimo che i lavoratori e le lavoratrici ci avevano voltato le spalle nella maggioranza dei casi.
Votavano al Nord principalmente un altro soggetto populista ma molto diverso dal movimento 5 Stelle: la Lega di Bossi e Maroni. Nemici e amici oggi, ma fratelli ieri in nome degli interessi di una media borghesia che ha tentato di imporsi sul resto del Paese e ha fallito solamente perché il grande padronato non è rimasto a guardare ma si è riorganizzato prima sotto l’improvvisazione berlusconiana e democratica e oggi, ben più compiutamente, si riconosce nell’unità del governo di Enrico Letta.
Beppe Grillo non ha un programma sul lavoro: parla dell’Ilva di Taranto, di andare a presidiarla due giorni con i suoi deputati e senatori ma non propone nessuna analisi critica nei confronti dell’impresa.
Non siamo, dunque, davanti ad un movimento classista, ma interclassista che ormai rappresenta il cliché dei partiti e dei soggetti politici che il Paese è abituato a conoscere: non più partiti schierati da una parte sociale sola, ma schierati con tutte e tutti gli strati della società. Così è per il PDL, così è per il PD e così è per il movimento grillino.
La tristemente ben nota opinione che del ruolo del sindacato ha Grillo, è facile da incasellare come opportunità di far lievitare ancora di più il più che giusto malumore e la rabbia dei lavoratori nei confronti di un sistema di protezione dei diritti che troppo spesso è stato messo al servizio della controparte invece che rimanere dalla propria.
Qualcuno ha detto che, in fondo, Grillo è una “tigre di carta”, riprendendo l’espressione di Mao Tse Tung verso gli Stati Uniti d’America.
Non condivido questo giudizio: penso che sia una tigre che ancora non ha tutte le unghie affilate, ma che viene cavalcata molto bene dai suoi padroni e spinta nella direzione giusta da chi intende impossessarsi di un sistema politico per scopi tutt’altro che pubblici.
C’è un grande inganno in tutto questo. Ma noi che lo denunciamo siamo dei complottisti, dei “conservatori”. Chi non lo vede invece è – per moda, illusione o per entrambe – il virtuoso del momento.

mercoledì 5 giugno 2013

Perché stavolta tocca a Istanbul



di Benjamin Petrini 

Le manifestazioni iniziate nei giorni scorsi nella zona europea di Istanbul, diventate poi rivolte anti-governative estese a tutto il paese, hanno una matrice sociale, politica ed economica più ampia della difesa di un piccolo parco cittadino nel cuore di Istanbul. Proprio il divieto della tradizionale manifestazione per i diritti dei lavoratori lo scorso primo maggio in piazza Taksim a Istanbul ha inaugurato la serie di episodi di violenza e repressione che si sono ripetuti nel corso delle ultime settimane, fino all’inizio degli scontri lo scorso sabato.
Adiacenti a piazza Taksim – simbolo del kemalismo e ritrovo storico del laicismo turco – i giardini del Gezi Park occupano una circoscritta e rarissima area verde. Il piano governativo di trasformare la piazza in un centro commerciale, con annessa moschea, rappresenta solo l’ultimo sfregio. La protesta si inserisce in un crescente clima di contestazione verso il governo del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, impegnato – a detta di numerose associazioni in difesa del patrimonio culturale di Istanbul – in una sistematica quanto frettolosa distruzione o rimozione dell’eredità storica, culturale ed architettonica della città.
A passi rapidissimi, la modernizzazione di Istanbul coinvolge un ammodernamento delle infrastrutture di trasporto, e la diffusione di complessi abitativi di lusso, centri commerciali e moschee – a supporto del binomio religione-business, vero cavallo di battaglia del Partito governativo Giustizia e Sviluppo (Akp). Tra gli altri, in cantiere vi sono la costruzione di un nuovo aeroporto (il terzo), un ponte sullo stretto del Bosforo (anch’esso, il terzo), e la quasi-fantascientifica proposta di aprire un canale occidentale per incrementare il flusso commerciale tra il Mar Nero ed il Mediterraneo. Sullo sfondo, la forte candidatura di Istanbul ad ospitare i giochi Olimpici del 2020.
La brutale repressione poliziesca e la concomitante paralisi degli organi di informazione turchi hanno offerto su un piatto d’argento la scintilla per la presente rivolta popolare: la difesa del Gezi Park diventa questione di dignità politica e morale per la cittadinanza laica di Istanbul, e di riflesso, dell’intera Turchia, e riceve solidarietà internazionale attraverso il rapido passaparola dei social network. Di qui l’ampia varietà che compone il panorama sociale delle rivolte: dagli studenti ai lavoratori precari, dai disoccupati ai piccoli imprenditori per passare attraverso associazioni di categoria, gruppi ultras che avversano la polizia, anarchici e quasi l’intero spettro dei partiti di opposizione (nazionalisti, sinistra laica, comunisti, partiti curdi).
Sul banco degli imputati siedono le politiche e la gestione del potere da parte del Akp – al governo dal 2002 e investito di un ampio mandato popolare alle ultime consultazioni del 2011 – ma da più parti accusato di crescente autoritarismo. Le critiche evidenziano pratiche di governo che esaltano l’efficienza ai danni del dialogo: in una società storicamente polarizzata come quella turca questo crea nuove tensioni e sospetti mai sopiti.
Se i successi della Turchia in campo economico nell’ultimo decennio sono innegabili, lo stesso non può dirsi circa le modalità e la gestione di tale boom economico – così come in politica estera per la criticata gestione della crisi siriana o del riavvicinamento con Israele. Secondo l’Economist intelligence unit (Eiu), nel periodo 2002-2011 la Turchia ha registrato una crescita economica media del 5,4%; il reddito medio pro-capite è addirittura triplicato da quasi 3mila dollari nel 2001 ai quasi 10mila nel 2011, attestando il paese al quindicesimo posto tra le potenze economiche mondiali e ponendolo al riparo dalla crisi economica che investe numerosi paesi europei. Ciò nonostante, diversi fattori minacciano la stabilità e la stessa legittimità di tale crescita, e sono alla base delle odierne proteste.
In primo luogo, vi è una parte della società turca che non accetta la marginalizzazione. Si tratta qui dell’acceso contrasto tra le tradizionali élite economiche ed una nuova classe imprenditoriale affiliata al Akp – come spiega Vali Nasr, autore di Forces of Fortune. Cresciute grazie a piccole e medie imprese, le nuove élite si raccolgono intorno ad organismi come la Musiad, una delle più grandi associazioni di imprenditori sponsorizzata dal AKP. A questo si aggiunge la mancanza di dialogo, comunicazione e partecipazione sulle politiche di sviluppo economico da parte del governo. Totalmente incapace di avviare un dialogo con le parti sociali e la società civile, il governo dimostra una crescente intolleranza (attraverso l’uso di pratiche repressive da parte delle forze di polizia) verso qualsiasi forma di dissenso e di protesta, a cominciare dalla libertà di stampa e dai diritti dei lavoratori.