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Il Blog di Rifondazione Comunista di Assisi


giovedì 28 marzo 2013

La cultura della sconfitta e la mancanza del progetto




di Ugo Boghetta

In un precedente articolo (Liberazione febbraio  ) affrontavo  l’andamento delle assemblee del PRC,  Cambiare si Può, Rivoluzione Civile alla luce della psicologia dell’emergenza (la branca che studia le reazioni a eventi drammatici). Notavo che, parimenti, i nostri comportamenti potevano essere assimilati a “shock da stress post traumatico”. Dopo l’ennesimo disastro elettorale, non mi sembra che i nostri comportamenti siano cambiati. Ognuno, individuo o gruppo, si aggira più o meno suonato fra le macerie. Ci sono anche casi di spaesamento totale: ferree certezze sono sostituite da folli confusioni. Si ripetono mantra che dovrebbero tranquillizzare ma che, in realtà, nascondono una forte depressione.

Dinnanzi al dramma bisognerebbe avere in primo luogo la cultura della sconfitta: si dice che si impara di più dalle sconfitte che dalle vittorie. E ri-affrontare i propri assiomi teorici e politici; ma è difficile. Ne indico alcuni a mo’ di esempio.
La sinistra d’alternativa in genere basa azione, politica, programma, cultura  attraverso la somma e giustapposizione della “moltitudine” di temi e conflitti: lavoro, ambiente, democrazia, diritti civili. Ciò aveva un senso, almeno temporaneo, nel movimento noglobal; ma la crisi del 2008, l’incedere minaccioso degli effetti dell’euro, hanno spazzato via anche quell’apparente giustezza.
Si pensa davvero che lavoro tradizionale, più precariato, più reddito di cittadinanza sia un modo per creare l’unità del lavoro e la sua centralità? È pensabile produrre un’egemonia in questo modo? L’esempio del referendum sull’acqua è eclatante: Egemonia culturale su di un solo oggetto, nessuna in termini politici.
La risposta è ovviamente negativa, eppure, abbiamo cancellato qualsiasi riferimento ad un modello alternativo: quello che in America latina chiamano il socialismo del XXI secolo. Abbiamo rinunciato ad essere sinistra e comunisti.
I corollari di questa impostazione sono ancora più devastanti. Per alcuni il sociale, i conflitti, sono immediatamente politici e si rappresentano da soli in quanto tali. Per altri basta una coerente rappresentazione nelle istituzioni. Per altri ancora – SEL – ritorna l’autonomia del politico.  Per non dire di coloro che si sono inventati la reversibilità del PD: “tutto può succedere”.  Assistiamo così a presunte grandi diagnosi ma nessuna terapia. Le matrici storiche di questi cortocircuiti sono tante: si va dallo spontaneismo ad un certo operaismo, al comunismo imbalsamato.
Tutto ciò, per altro, non tiene conto di due cose fondamentali. Siamo nel modello capitalista peggiore: il liberismo che tutto spacca, precarizza, frammenta. La scala sociale si allunga. Il potere si nasconde. La democrazia borghese arranca. L’ideologia dominate è populista: Bossi, Berlusconi, Di Pietro, Grillo, Vendola. La stessa elezione del Papa argentino lo conferma.
La realtà che si vede è quella manipolata dal liberismo. La sommatoria dei pezzi di questa realtà non ci porta da nessuna parte: finiamo sempre per lavorare per altri, eppure fatichiamo addirittura a concepire la problematica stessa.
Per questo è necessario un progetto. Ciò richiede un ragionamento sul blocco che, o viene unificato da una proposta politica di un rinnovato classismo oppure da una forma populista. Grillo ha rappresentato dall’alto tutti i conflitti che, invece, sono stati riottosi o contrari ad unificarsi dal basso.
Di seguito prospetto alcuni questioni. I lavoratori garantiti non sono oggi così alternativi: non hanno da perdere le catene, ma un lavoro decente. Le partite IVA, sebbene abbiano verificato sulla loro pelle che la libertà che pensavano fosse una balla, non chiedono il superamento del loro status, ma garanzie. Artigianato e piccola industria sono conto-terzisti: una forma di dipendenza non meno forte di quella del lavoratore. Per costoro la penuria di credito e l’euro sono un cappio. La finanziarizzazione della vita quotidiana  ha pervaso la società fini in basso e impone un rapporto con le borse, i titoli, lo spread. Ciò spiega gli atteggiamenti contraddittori popolari  rispetto alla crisi. Per non parlare degli intellettuali, anch’essi così diversi da quelli gramsciani. Gramsci, non a caso, parlava di “blocco storico” fondato sul rapporto – specifico in una certa fase – fra struttura e sovrastruttura. Serve pertanto un’analisi di classe dei rispettivi rapporti. Cosa assai complicata da leggere oggi poiché i rapporti nel neoliberismo sono fortemente mutati e, a volte, rovesciati.  Il tema di un progetto alternativo è anche imposto dalla stessa situazione di crisi delle classi dirigenti del nostro paese e del rispettivo blocco.
Questi pochi esempi e problematiche dimostrano come un’uscita a sinistra dalla crisi sia pensabile solo con un progetto di cambiamento che, non solo, valorizzi diversamente e per un bene comune le varie risorse lavorative, cognitive, finanziarie; ma le trasformi sganciandole dalla finanza, dal mercato, dall’individualismo, dal consumismo. In questo quadro,  la questione dell’euro-Europa, un nuovo e diverso intervento pubblico, la questione banche, possono essere la condizione ed il motore del cambiamento del modello economico e dei rapporti sociali. Gramsci, ma anche Lenin. Quest’ultimo non tanto sulla forma-partito – che pure è un tema connesso – ma per un’azione politica che converga con forza sui vari punti di crisi che man mano si presentano. Questo richiede anche un altro modo di avvicinarsi alla costruzione del soggetto di questo cambiamento che, dubito, possa essere la semplice somma dei ceti politici. In questo senso servirebbe aprire una battaglia culturale e politica fra la scelta di stare in un modello americanizzante dei conflitti e della politica , l’unificazione dall’alto da parte del leader populista di turno, o la costruzione di un progetto di unificazione che preveda anche la propria trasformazione. Altrimenti continuiamo anche noi a stare, sul piano sociale e politico, in questo esterno gattopardismo del: “tutto cambi ma che nulla cambi”.

Revelli e la sua pessima caricatura politica

di Ezio Locatelli Prc Torino

Poiché tutta una serie di compagni/e mi hanno chiesto di dire qualcosa a proposito dell’articolo di Marco Revelli apparso domenica su “il Manifesto” a commento della bella manifestazione notav in Val di Susa lo faccio in poche battute. Innanzitutto cosa dice l’articolo in questione? Tra le altre cose:“…l’assenza di bandiere a cinque stelle parla di una notevole intelligenza politica dei cosiddetti “grillini” i quali evidentemente hanno capito che un movimento…non lo si rappresenta…marchiandolo con i propri simboli…al contrario degli estremi residui delle formazioni veterocomuniste, fastidiosamente chiusi nelle loro bandiere come una corazza medievale, testimonianza di una testarda volontà di non capire”. La polemica, in tutta evidenza, è rivolta contro Rifondazione Comunista presente in forze con le proprie bandiere unitamente a quelle notav. Credo che in questa polemica Revelli abbia esso stesso capito poco. Intanto se si ha un’idea plurale delle culture politiche e di movimento bisognerebbe avere rispetto dei colori e delle appartenenze soprattutto quando queste afferiscono a medesimi obiettivi di lotta e di movimento. E poi non si può far finta di non vedere che i cosiddetti “grillini” non hanno bisogno di bandiere, la loro rappresentazione è ampiamente garantita da un sistema d’informazione a senso unico. Così non è certo per Rifondazione Comunista (per favore lasciamo stare il termine sprezzante di “vetero”) peraltro da sempre presente e attiva nella lotta contro il Tav e rispettosa dell’autonomia del movimento. Io penso che la democrazia oggi si difenda o si riconquista anche rigettando espressioni d’intolleranza culturale per le diversità. Quella di Revelli mi sembra essere stata una pessima caricatura politica. 

lunedì 25 marzo 2013

In tantissimi alla manifestazione contro la Tav!



di Fabio Sebastiani
“Non faccio mai numeri, ma sono rimasto impressionato, e’ la manifestazione piu’ grande che abbia mai visto”. Almeno 80 mila persone hanno partecipato ieri alla grande marcia da Susa a Bussoleno contro la Tav. Alberto Perino, uno dei leader dei No Tav, che ieri mattina ha  accompagnato la delegazione di parlamentari nell’ispezione del cantiere, proprio non ce la fa a nascondere l’entusiasmo. “Considerando che da fuori saranno venute circa 5.000 persone e che in valle ne abitano circa 60mila – aggiunge – si capisce quanto grande e’ stata la partecipazione dei valsusini. Per la prima volta ho visto persone che non avevano mai sfilato prima e che nemmeno mi sarei aspettato”, ha concluso Perino.
“La situazione e’ cambiata – ha sottolineato Lele Rizzo, uno dei portavoce del Movimento No Tav – un terzo dei parlamentari che oggi siedono in Parlamento sono No Tav, e’ chiaro che le nostre ragioni sono condivise, quel cantiere e’ uno spreco di denaro, sta a noi portare avanti il progetto di liberare la valle, quel cantiere puo’ essere smontato sta a noi farlo “. Una riflessione condivisa da un altro dei leader del Movimento, Alberto Perino che dopo aver ribadito la straordinarieta’ della manifestazione, ha aggiunto “quest’opera va bloccata, ma sara’ possibile farlo solo se dietro di noi ci sara’ la gente, siamo la speranza per l’Italia e Al corteo, quasi interamente sotto la pioggia, hanno partecipato tante delegazioni da tutta Italia dove sono in atto lotte contro le grandi opere ed anche contro le installazioni militari, come No Muos o No Dal Molin. Proprio questi hanno srotolato uno striscione in invitano tutti a partecipare alla mobilitazione in programma il 4 maggio.
Anche dall’Europa arrivano segnali di incoraggiamento. Alcuni deputati europei invitano alla partecipazione alla manifestazione ‘Difendi il tuo futuro’, “al fine di dare una risposta ai bisogni reali delle persone che li vivono e una prospettiva sostenibile per il trasporto alpino”. I deputati denunciano anche la crescente evidenza di conflitti d’interesse intorno al progetto del tunnel e la militarizzazione persistente di tutta la Val di Susa”. La petizione è stata firmata da Jose Bove’, vice-presidente della Commissione Agricoltura PE, Isabelle Durant, Vice Presidente del parlamento Europeo, Michael Cramer, capogruppo commissione trasporti Verdi europei, Eva Lichtenberger, MPE, Heide Ruhle, MPE, Raul Romeva, MPE, Bart Staes, vicepreseidnete commissione controllo di bilancio del PE e Karim Zeribi, commissione trasporti Europe Ecologie Les verts. ”L’opposizione alla nuova linea e il tunnel transfrontaliero e’ rilevante e organizzata da anni in Italia, e piu’ di recente in Francia, dove vi e’ una crescente consapevolezza della necessita’ di soprassedere al progetto del tunnel di base dopo la pubblicazione delle gravi obiezioni sollevate dalla Corte dei conti Francese – continua la nota -.A livello europeo, la nostra proposta e’ semplicemente di togliere il tunnel della Valsusa dalla lista dei progetti che dovrebbero essere finanziati con fondi comunitari; e’ per noi infatti chiara la mancanza di priorita’ e l’insostenibilita’ del progetto”.
Hanno aderito alla manifestazione contro la Tav anche Rivoluzione civile e Rifondazione comunista. Il movimento fondato da Antonio Ingroia “risponde alla chiamata nazionale dei NoTav che vogliono chiudere una volta per tutte la questione sull’Alta velocità in Val di Susa e opporsi alla realizzazione della contestata linea. I rivoluzionari civili sfileranno con le nostre bandiere, con l’auspicio che il movimento No Tav si slarghi sempre di più senza opposizioni e preclusioni nei confronti di nessuno, nè dei parlamentari di Movimento 5 Stelle e neppure degli esponenti del Pd, che hanno apertamente preso posizione”. Per Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista “siamo in Val di Susa, dalla parte della popolazione valsusina, per ribadire ancora una volta – dice – il ‘no’ che diciamo dall’inizio degli anni ’90 a quest’opera inutile e dannosa per l’ambiente e il territorio, a quest’enorme e vergognoso spreco di denaro pubblico”.

giovedì 21 marzo 2013

La sinistra si pesa sulla bilancia del lavoro




di Alberto Burgio

Capire che cosa è accaduto nel nostro campo per dare radici alla ricostruzione dopo lo tsunami Diritti,rappresentanza formazione, welfare: punti per un bilancio sugli errori dell’ultimo ventennio del paese

Alla fine le Camere hanno eletto i propri presidenti, ma sullo sfondo campeggiano altri enigmi. Chi siederà a palazzo Chigi? Chi, soprattutto, al Quirinale, di qui al 2020? Si brancola nel buio. E proprio per ciò che attiene alla presidenza della Repubblica il «passo indietro» di Monti in Senato lascia intravedere scenari inquietanti. Nel frattempo si affoga.
Disoccupazione, povertà, sfiducia. Una moria inarrestabile di imprese industriali, artigiane e commerciali. Il debito pubblico alle stelle. Prima o poi il paese uscirà da quest’incubo, ma intanto siamo in un dannato pasticcio del quale non si vede la fine. In tutto questo è inevitabile chiedersi come saremo messi quando – presto o tardi – questa legislatura finirà. Il voto di febbraio è stato, si dice, un terremoto: speriamo non si intenda, con ciò, che possiamo star tranquilli. Non è detto che il peggio sia alle nostre spalle. È probabile, invece, che siamo appena all’inizio di una fase di grandi sconvolgimenti e che il paese rischia di brutto se non si avrà il coraggio e la lucidità di introdurre profondi cambiamenti. Cominciando proprio dal sistema politico e dalla sua drammatica crisi di rappresentatività, che è poi la vera causa dello tsunami grillino.
Forse bisognerebbe, innanzi tutto, cercare di capire perché ci ritroviamo in queste condizioni, e per questo occorrerebbe ripercorrere un po’ di storia. Qui cominciano le difficoltà, posto che ogni periodizzazione contiene un pezzo della tesi che si intende dimostrare. Ma in questo caso qualche criterio obiettivo c’è.
Tutti concordano sul fatto che gli ultimi vent’anni hanno costituito una fase a sé stante. All’inizio degli anni Novanta il sistema politico italiano fu sconvolto da Tangentopoli, dalla Bolognina e da un’ondata di riforme istituzionali che lo trasformarono. Cominciò l’era del maggioritario e dell’iper-leaderismo mentre scomparivano tutte le forze politiche, Dc e Pci in testa, che avevano scritto la Costituzione e, sin lì, la storia repubblicana. Non per caso si parlò di una «seconda Repubblica». Tutti convengono anche sul fatto che qualcosa di molto rilevante è accaduto col voto di febbraio. Non solo il bipolarismo è andato in pezzi. Non solo i maggiori partiti sono in crisi. Comunque la si pensi sul M5S, non c’è dubbio che la sua irruzione ha messo a soqquadro il sistema, rendendo inderogabili innovazioni radicali.
Se questo è vero, ecco una prima, parziale risposta. Siccome bisogna cercare di capire perché siamo ridotti così, per questo motivo è necessario fare finalmente un bilancio dell’ultimo ventennio. Da troppo tempo chi fa politica sembra pensare che riflettere sia una perdita di tempo, roba da intellettuali perdigiorno. È vero il contrario. O si è in grado di collocare la propria azione in un quadro di senso, il che implica una visione pertinente della storia nella quale si è coinvolti. Oppure ci si riduce fatalmente a esecutori passivi e inconsapevoli.
Ma – ecco il punto – un bilancio da quale punto di vista? A questo riguardo è infatti inevitabile rinunciare a prospettive condivise. Raramente in politica si vince o si perde tutti insieme: bisogna decidere da che parte stare. Scelte che per qualcuno sono errori, rappresentano per l’avversario mosse azzeccate. Ciò che per gli uni segna un progresso, per gli altri equivale a un arretramento. Qui le platee necessariamente si separano. Credo che noi, a sinistra, un bilancio non potremmo farlo se non dal punto di vista del lavoro dipendente pubblico e privato, stabile e precario, comprendendo in esso i pensionati e quanti – milioni di giovani e donne, a partire dal Mezzogiorno – stentano a trovare un’occupazione. Perché? Per la ragione, semplice e fortissima, che nulla di buono può accadere per la e alla sinistra italiana – comunque la si intenda – che contrasti allo spirito del primo articolo della Costituzione repubblicana.
Da qui deve ripartire la ricerca – quanto possibile spregiudicata e unitaria – se la sinistra (quel che ne resta) vuole evitare una disfatta di proporzioni davvero colossali, rispetto alla quale il voto di febbraio sarebbe poca cosa. D’altra parte, fare questo bilancio non sembra un compito improbo. Neanche in questo caso è difficile fissare pochi, dirimenti criteri-base. Ci si confronti sui diritti inalienabili del lavoro e sul grado minimo della sua sicurezza (precarietà, povertà, infortuni). Ci si pronunci sul tema della formazione, se la si ritenga un diritto per tutti sino all’università, contro la tendenza in atto a reintrodurre la selezione censitaria. Si prenda posizione sulle riforme istituzionali, in particolare sulla tensione tra governabilità (obiettivo mancato delle riforme degli anni Novanta) e rappresentatività. Si ponga infine sul tappeto la questione della politica economica: del welfare (contro la privatizzazione dei servizi), della politica industriale e del ruolo del pubblico nel credito, dell’autonomia del paese dagli interessi dei grandi capitali transnazionali, del ruolo del mercato in una democrazia. Uscendo da un’ambiguità che ha impedito in tutti questi anni qualsiasi serio confronto e alimentato diffidenza e pulsioni distruttive: ci si pronunci francamente sul piano dei giudizi di valore (si dica come si valutano i singoli processi in atto, se rappresentano progressi o involuzioni) prima di sancirne la presunta incoercibilità.
Insomma, si apra, per dir così, una grande costituente del lavoro. Non dovrebbe essere così difficile, mentre sarebbe con ogni probabilità l’unico modo per mettere a valore la sconfitta subita alle elezioni, trasformandola in un’opportunità. Forse, da una parte, si scoprirebbe che il disastro della sinistra italiana è cominciato proprio quando sul lavoro si è smesso di pensarla allo stesso modo (per approdare alle teorie dell’equivicinanza). E, dall’altra, ci si renderebbe conto che si è meno divisi di quanto si creda, tra forze politiche (partiti che oggi sono dentro e fuori il parlamento) e tra forze sociali (sindacati, movimenti, associazioni, sinistra diffusa e intellettualità). Si apra una discussione affinché anche in Italia nasca una sinistra del lavoro, che erediti in primo luogo l’esperienza del Pci, forse prematuramente archiviata insieme alla «prima» repubblica.

E si cerchi – le pagine del manifesto potrebbero offrire un territorio ideale – un nuovo linguaggio unitario che permetta di ricominciare insieme un cammino da troppo tempo interrotto.

mercoledì 20 marzo 2013

La democrazia 2.0 e i soldatini di piombo



di Salvatore Cannavò

Hanno ragione i senatori 5 Stelle che rivendicano il diritto a votare come credono? O Grillo che chiede a tutti di attenersi alle regole del movimento? E gli elettori devono partecipare o no? Le riunioni vanno trasmesse in streaming tutte o no?
Un po’ alla volta contraddizioni e fili complessi stanno venendo al pettine. La democrazia 2.0 promessa dal Movimento Cinque Stelle fa i conti con le strutture della democrazia istituzionale e rappresentativa e ci si tormenta. Si è fatta molta ironia sulla mancata diretta streaming della riunione dei senatori grillini riuniti a porte chiuse per discutere del voto per la presidenza del Senato. La promessa che era apparsa la più rivoluzionaria – “metteremo tutto in rete, vogliamo la trasparenza” – è stata disattesa al primo passaggio impegnativo. E “trasparenza”, paradossalmente, ha chiesto lo stesso Beppe Grillo, per lanciare il suo “altolà” ai senatori dissidenti. La rete, poi, in particolare i commenti al post di Grillo, hanno reso esplicita una discussione e una divisione trasversali. Il problema su “chi decide?”, quindi, torna a porsi e proporsi all’attenzione generale. E la discussione merita di essere affrontata se, come nel caso del M5S, si vuole fare un discorso “rivoluzionario” sul tema, ipotizzando, o vagheggiando, forme di rappresentazione diretta o, addirittura, l’estinzione della stessa rappresentanza una volta che “i cittadini” si fossero impadroniti della cosa pubblica.

Il problema è che, come spesso capita quando si parla di democrazia, si sorvola sulla stretta connessione che esiste tra forma e contenuto. La forma della rappresentanza parlamentare è fatta apposta per edulcorare quel complesso di relazioni sociali e di conflitti che la sottendono, che ne sono alla radice storica e che, però, sono stati messi fuori dalla porta in nome di un equilibrio statuale-sociale. La democrazia italiana, in parte quella occidentale, è in crisi da almeno venti anni, dalla stagione di “mani pulite” e quindi dalla crisi della cosiddetta Prima Repubblica. In realtà, in Italia, è in crisi dagli anni 70, da quando l’irruzione dei movimenti di massa, del conflitto operaio, della lotta studentesca, della radicalizzazione politica, ha impattato contro un sistema “democratico” che si è blindato condannandosi, da lì in poi, alla deriva istituzionale. Ci provarono Moro e Berlinguer a farsi carico dell’impasse con una soluzione che, però, andava in senso contrario alla domanda che saliva dalla società. E non è un caso che, dopo la stagione fallimentare del “compromesso storico” e del “governo delle astensioni”, la crisi del Pci si sia intrecciata con quella strisciante, e allora non visibile, di Dc e Psi tanto che l’allora leader socialista, Bettino Craxi, iniziò a parlare della necessità della “grande riforma” costituzionale vagheggiando un sistema presidenziale. Il sistema che, guardando a Stati Uniti e Francia, appariva il più adatto a garantire la “governance” di una società spaccata, attraversata da conflitti profondi e in cui la crisi economica degli anni 70 – allora la più grave del dopoguerra, sostanzialmente mai risolta – rompeva con la crescita inclusiva del dopoguerra e iniziava a generare la precarietà e l’impoverimento dei salariati che oggi è esploso con più vigore.
Quesat crisi è stata resa ancora più plateale del ventennio berlusconiano con la sua pretesa di rappresentare la stabilizzazione moderata e capitalistica dell’Italia nella globalizzazione – ricordiamo ancora il senso di Genova 2001? – senza però riuscirci mai e, anzi, incarnando costantemente l’anomalia di sistema, impedendo attivamente, anche in questi giorni, un approdo per lo meno transitorio della “governance”.
In questa crisi si è introdotto l’esperimento grillino in cui la rabbia “anti-casta”, dovuta soprattutto all’attuale condizione sociale, costituisce l’aspetto preponderante ma in cui si possono rintracciare altri due elementi importanti: la “speranza” di dare una scossa, strattonando i progressisti in senso “democratico-ugualitario”; l’idea, gestita dal settore più militante, di fondare una nuova democrazia. Nella “narrazione” di Grillo questo elemento occupa un posto decisivo così come nell’ideologia costruita da Gianroberto Casaleggio.
La contraddizione più evidente di questa impostazione è che non si può realizzare una prospettiva di “democrazia assoluta” – ammettendo che l’utilizzo della rete ne rappresenti il viatico – sovrapponendola alla democrazia rappresentativa. Su questo punto si comprende la radicalità della posizione di Grillo: non ci si può mai mescolare con gli altri, non si vota assieme, non si cumulano le due visioni di rappresentanza. Quindi, la tesi, è stato un errore partecipare all’elezione del presidente del Senato. Ma che ci stai a fare in Senato se non voti mai? Se non partecipi alle scelte? In fondo il Cinque Stelle ha chiesto una delega per rappresentare alcune istanze e queste si intrecciano alle scelte degli altri soggetti politici. Nel momento stesso in cui si è scelto di rappresentare e di farsi rappresentanti si è scelto di partecipare al gioco e la purezza assoluta è stata minata alla radice. Grillo è vittima di questa contraddizione che non potrà esorcizzare facilmente. Ieri è stata la volta di Piero Grasso, domani sarà quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi di una qualche misura gradita, etc. In ogni passaggio la partecipazione al gioco comporterà una valorizzazione del grado di democrazia rappresentata e il deputato o il senatore dovrà rappresentare le scelte che ritiene di incarnare. Lo potrà fare a maggioranza con il proprio gruppo parlamentare ma, al di là dell’articolo 67 e del mandato imperativo, agirà comunque in relazione al proprio mondo, alla propria coscienza, ai propri convincimenti.
L’idea di fondo di Grillo, a quanto si capisce dall’esterno, è che comunque dovrà farlo in maniera rigida, votando solo le indicazioni del movimento di appartenenza e della “rete”. Ma, allora, in questo caso, chi decide? In che modo? Con quali garanzie? Beppe Grillo ha tutto il diritto di chiedere ai suoi parlamentari di sottoporsi alle scelte della base, ma questa base deve manifestarsi, organizzarsi, partecipare. Anche per mostrare la propria qualità sociale che al momento sfugge. Se i senatori si fossero riuniti pubblicamente, mostrando le proprie diverse inclinazioni e sottoponendo a una votazione più ampia, avrebbero introdotto un elemento di novità nei sistemi di rappresentazione democratica. Ma una votazione più ampia va organizzata, individuando la platea dei votanti: gli iscritti al M5S? E perché no gli elettori? Con un quorum o senza? Con quale grado di informazione collettiva? Più si ampliano le procedure, più si introducono varianti e più i problemi da risolvere aumentano. E questo perché la democrazia non può essere ridotta a una “formalità”, al modo in cui si vota, a un voto puntuale. E’ un processo politico e sociale, un esercizio di partecipazione sociale, è conflitto, scontro anche duro. Se esistesse davvero, vivrebbe al di là dell’interruttore acceso dal leader di turno, marcerebbe sulle proprie gambe. Come ha fatto in alcuni, pochissimi, momenti storici (tra l’altro finiti male): con la Comune di Parigi o con le varie esperienze di consigli operai (o di contadini e soldati come nel ’17 in Russia). Non è facile prevedere come possa darsi oggi un processo di democrazia diretta, probabilmente la Rete sarebbe essenziale viste le sue qualità tecniche. Potrebbe prevedere una fase di relazione dialettica con le istituzioni di rappresentanza delegata ma senza una dialettica conflittuale alla fine soccomberebbe. Soprattutto, non avrebbe vita lunga se non fosse incarnata su figure sociali, su soggetti riconoscibili, attori di una realtà che è lungi dall’essere pacificata e in cui non tutti o tutte sono uguali.
Questo è il punto debole del ragionamento grillino, anche quando avanza una provocazione utile. A mancare del tutto è una dimensione di partecipazione, una realtà sociale organizzata, l’irruzione soggettiva. Nella sua rappresentazione manca il conflitto e manca l’autorità dei soggetti sociali, condizione che rende assoluto il suo protagonismo e la sua leadership. Nessuna democrazia mimata al computer può surrogare questa dimensione, decisiva per innescare un meccanismo di trasformazione e fondamentale per dare significato alle scelte più radicali. Essenziale, soprattutto, per innescare un processo in cui, alla fine, a soccombere sia l’attuale democrazia rappresentata per affermare una democrazia superiore. Senza questa partecipazione, sociale e diretta, i personaggi di questa rappresentazione rimarranno soldatini di piombo gettati nella corrente, spiriti liberi fluttuanti nell’aria.


lunedì 18 marzo 2013

Problemi a Castelnuovo




Ci giungono segnalazioni da Castelnuovo, e in particolare dalla Proloco, sul malcontento che la popolazione sta provando per la palese noncuranza dimostrata dall’amministrazione comunale per il decadimento demografico e generale della frazione assisana.
In particolare la totale mancanza di un collegamento con la Stazione Ferroviaria di S.M.Angeli attraverso corse di autobus è la classica goccia che fa traboccare il vaso dell’esasperazione di una cittadinanza che si sente di serie b.
La situazione specifica dei collegamenti dei bus stride ancor più se la si paragona ad altre realtà territoriali meglio rifornite di collegamenti che vadano al di là di quelli solamente scolastici.
Lungi da noi alimentare una “lotta fra poveri” e con tutto il rispetto per gli abitanti delle varie frazioni, è palese che tale disinteresse ormai ha superato la normale tolleranza da parte di chi si sente escluso da un senso di collettività e dall’avere una normale vita di interrelazione, culturale, lavorativa e persino ludica, con il territorio regionale.
Troppo spesso nelle elezioni amministrative si vota chi si presume rappresenti il territorio delle frazioni; questo atteggiamento risulta innegabilmente sbagliato nel momento in cui si compiano scelte che possano minimamente odorare di corsie preferenziali a discapito dei diritti di tutti gli abitanti di un comune.
Il futuro delle spese dedicate agli enti locali, vi è da rilevare amaramente, sarà sempre più nefasto e in ribasso dato che la spending review sembra ammaliare tutti i partiti, Pd e Pdl in testa, risultati fra i più votati delle ultime elezioni politiche, compresi quei movimenti, come il M5S, che hanno criticato l’austerity ma de facto non hanno proposte veramente alternative ad essa; le stesse elezioni non hanno premiato invece quelle formazioni come la nostra che al contrario sono da sempre a favore dei ceti popolari e delle loro istanze.
Un dato sicuro a tutt’oggi è di nuovo la frustrazione di una parte della cittadinanza, e le dichiarazioni pubbliche della proloco di Castelnuovo lo dimostrano: il comune di Assisi si impegni a far si che le frazioni assisane sentano di avere la stessa dignità e prendano in considerazione le questioni poste dalla cittadinanza esausta.
Ne va dell’alta onorabilità di chi ha deciso di governare una città eterogenea come Assisi.

mercoledì 13 marzo 2013

Come ripartire?


di Stefano Cristiano

Noi abbiamo compiuto diversi errori: siamo arrivati lunghi nella costruzione di un’alleanza sulla quale lavoravamo da 1 anno; abbiamo costruito liste in modo assurdo; abbiamo sottovalutato l’impatto che la scissione nell’IDV e l’inchiesta di Report, hanno avuto sull’IDV, su Di Pietro e sull’opinione pubblica; sono stati compiuti sbagli nella comunicazione e nelle priorità che nelle settimane decisive Antonio Ingroia esponeva, le rare volte che riusciva a tornare in TV; il simbolo, e potrei continuare…

La domanda però è un’altra. Di fronte alla peggiore crisi economica e sociale dal 1929; di fronte al fatto che il popolo in queste elezioni ha bocciato sonoramente il governo Monti e la sua maggioranza di fronte al fatto che in Rivoluzione Civile si fossero comunque coalizzate tutte quelle forze che con maggiore chiarezza, determinazione, in Parlamento e fuori, si erano battute contro le scelte economiche e sociali di quel governo proponendo un programma alternativo… di fronte a tutto ciò bastano i nostri errori a comprendere e giustificare un risultato così deludente? La mia risposta è NO!

Anzi dirò di più. Questo risultato è stato così imprevisto e drammatico, da diversi punti di vista, da portarmi a ritenere che, qualora avessimo preso il 4,001% per noi, certamente, sarebbe cambiato tutto: avremmo una rappresentanza parlamentare, maggiore serenità economica, entusiasmo e gratificazione per le nostre compagne e i nostri compagni, per noi, dicevo, avrebbe significato moltissimo, ma ai fini del giudizio storico e politico su queste elezioni (con Grillo al 23% anziché al 25% e noi al 4% anziché al 2%) non sarebbe, sostanzialmente, cambiato.

Che paese ci tratteggia questo risultato?

1) Un paese in ginocchio che boccia sonoramente Monti e il suo governo, basti pensare che, considerando anche le astensioni, le forze politiche che sostenevano Monti avendo l’80% in Parlamento, oggi non arrivano, tutte insieme, alla metà dei consensi (20 milioni di voti su 47 milioni di aventi diritto.

2) Un paese nel quale, e non mi si dica più che gli elettori siano migliori di chi li governi, Berlusconi ritorna in campo e 1/5 dei votanti gli da il consenso non nonostante, ma grazie a proposte quali condono tombale, rimborso personale dell’IMU, attacco forsennato alla magistratura.

3) Un paese nel quale il PD esce politicamente sconfitto e, con esso, il peggior Presidente della Repubblica della storia recente.

In questo contesto il M5S fa il pieno del malcontento contro il Governo ed i suoi sostenitori raggiungendo 8.600.000.

Come tutti voi, ho fatto campagna elettorale battendo a tappeto case e strade. Ebbene si percepiva consenso sulle ricette economiche e sociali che avanzavamo. Emblematico però l’incontro con 2 maturi signori molto probabilmente ex elettori di sinistra, i quali, dopo avermi dato ragione su tutto, mi hanno gelato concludendo sbattendomi in faccia: “sono tutti ladri, devono andare tutti a casa, la casta e i partiti sono i responsabili”.

Qui sta la vittoria di Grillo e la nostra sconfitta. Io faccio una valutazione che non so se sia patrimonio comune. Non è che il nostro popolo, i lavoratori, i pensionati o i precari non percepissero la legittimità e la bontà delle nostre proposte, il punto è che ormai per loro non rappresentano più la priorità politica. Mentre noi proponiamo il “conflitto di classe” nel senso comune del nostro popolo è invece centrale il “conflitto di casta”. Mentre noi individuiamo nei padroni e nei poteri forti le maggiori responsabilità della crisi, nel senso comune del nostro popolo le nostre responsabilità sono tutte dei partiti e dei parlamentari.

Grillo è il più coerente interprete, ed al contempo amplificatore, di questo fenomeno. Egli infatti non si schiera programmaticamente (è di sinistra sulla TAV e di destra sui migranti), socialmente (si rivolge indifferentemente a operai e padroni) e culturalmente (è indifferente a categorie quali destra-sinistra, fascismo-antifascismo), e drena tutto questo malcontento, ormai liberato appunto dalle divisioni programmatiche, sociali e culturali novecentesche, scagliandole contro la “casta”. Il M5S conquista 8.600.000 voti non in virtù delle proprie posizioni sui rifiuti (il caso di Parma è emblematico con il sindaco del M5S fa l’inceneritore e alle politiche Grillo raddoppia i voti), ma perché il profilo politico prevalente di quel movimento tende ad assestare il colpo definitivo non ai privilegi di alcuni, ma al sistema della democrazia rappresentativa; non a quei partiti che hanno sostenuto politiche sbagliate, ma a tutti i partiti come soggetti organizzati e democratici di costruzione del consenso ed elaborazione programmatica, sostituita da “cittadini” che si riconoscono in un capo senza autonomia o mediazioni (la polemica sull’articolo 67 della Costituzione è emblematico perché non mette in discussione il rapporto fra eletto e propria organizzazione ma proprio il principio democratico di una testa un voto sostituito con quello plebiscitario di una testa e 100, 200, 300 voti). Questo a mio parere fa del M5S, e non sto parlando del suo elettorato, un movimento non configgente con i poteri forti, ma omogeneo rispetto alle loro aspettative istituzionali.

Perché in Italia, a differenza che in per esempio in Grecia, la protesta non ha premiato un’organizzazione come Syriza, che pone al centro la questione sociale e non quella istituzionale?

Le ragioni sono molteplici: certo ci sono errori nostri, come ricordavo all’inizio, io credo che molto abbia influito il sindacato che, a differenza che in Grecia, ha lasciato passare le nefandezze del Governo Monti senza contribuire a creare quella connessione fra disagio, protesta e questione sociale.

Credo però, e non da oggi, che il PRC si sia cullato per anni sul dualismo Bertinotti-Cossutta, senza mai affrontare in modo serio temi generali quali le ragioni della sconfitta del movimento operaio, le ricadute nel senso comune che avrebbe avuto, a lungo termine, la supplenza della magistratura nel ricambio di classe dirigente, il berlusconismo (oltre Berlusconi), l’affermazione di un sistema bipolare, l’assunzione a valore della fine delle ideologie ecc.

Al contrario, nel corso degli anni abbiamo assecondato una sorta di culto della personalità, modalità di relazioni interne basate più sulle caste che sulla libera discussione, abbiamo addirittura accarezzato teorie reazionarie quali quella della fine del lavoro (altro che conflitto di classe). Se errori abbiamo fatto, secondo me, non vanno cercati solo negli ultimi 11 mesi, ma negli ultimi 20 anni. Noi abbiamo ancora i calcinacci del muro di Berlino sulle spalle e non ci abbiamo fatto i conti oscillando continuamente fra riesumazione e rimozione, tradendo la “rifondazione comunista”.

Non ci sono scorciatoie. O ci rimettiamo rapidamente a studiare chiamando insieme a noi soggetti sociali e politici, storici, economisti sociologi che ci aiutino a riprendere il filo del nostro discorso e a capire cosa e come è cambiata nel profondo la nostra società. O saremo capaci di questo livello di discontinuità, oppure, come dissi prima delle elezioni, è giusto scomparire in quanto inutili. Come vedete non ho volutamente parlato di simboli, soggetti politici o costituenti, non perché non siano importanti, ma perché oggi più che mai io avverto come decisivo quel livello del confronto.

Per queste ragioni io credo che un congresso subito sarebbe sbagliato 1) perché non permetterebbe l’indispensabile apertura (un congresso per sua natura è rivolto solo agli iscritti di un’organizzazione). 2) Perché inevitabilmente il centro dell’attenzione sul nodo degli assetti più che su quello dell’approfondimento e dell’elaborazione. 3) Perché finirebbe per dividere il partito secondo le faglie delle componenti piuttosto che aprire un confronto libero sia teorico che programmatico.

Io voglio essere libero di discutere, abbiamo bisogno di ragionare e studiare senza tabù, la situazione è tale che nessuna opzione può essere considerata “eretica” o peggio usata, come accaduto troppe volte nel nostro partito, per selezionare i fedeli ed epurare gli altri. Se facessimo un congresso a Giugno, su quale proposta politica discuteremmo? Il rischio sarebbe quella di rifluire nelle vecchie appartenenze. Chi metteremmo al posto di questo gruppo dirigente? Semplice, compagne e compagni indicati, sulla base delle componenti, dal gruppo dirigente uscente. E la riprova di ciò, purtroppo, l’abbiamo avuta proprio oggi a partire dalle modalità e dai criteri con i quali è stata costruita la commissione politica.

Riusciremo ad affrontare seriamente il nodo strategico della necessità e del rilancio strutturale delle ragioni dei comunisti e della sinistra di classe nel nostro paese? O tutti noi, saremo in grado di fare questo salto di qualità, oppure dichiaro sin da subito non solo la mia indisponibilità ma il mio totale disinteresse verso pratiche e riflessi autistici e autoreferenziali che porteranno inesorabilmente alla fine di questa esperienza politica.

Uno dei più grandi analisti politici esistenti, Altan, ha riassunto in modo geniale quello che oggi è il mio stato d’animo: “Sono combattuto fra la testardaggine della volontà e la malinconia della ragione”. Nei prossimi giorni capirò se valga la pena di forzare testardamente la mia volontà, o farmi cullare, una volta per tutte, dalla malinconia di ciò che poteva essere e, purtroppo, non è stato.

martedì 12 marzo 2013

Una modesta proposta ai militanti e ai dirigenti di Rifondazione Comunista


di Marino Badiale

Abbiamo già scritto un commento rapido sui risultati elettorali della lista “Rivoluzione civile”, cioè sull'ultimo tentativo dei rientrare in Parlamento da parte della “sinistra radicale” (alla quale si era aggiunta l'IdV). Vogliamo adesso tentare una riflessione più approfondita, che speriamo possa essere utile a tutte le persone che continuano a riconoscersi nella storia e nelle sigle della “sinistra radicale” (ci riferiamo qui essenzialmente a Rifondazione Comunista). La tesi che intendiamo sostenere è che in questa storia c'è un errore di fondo, che ha prodotto fin dall'inizio significative storture rispetto alle importanti e condivisibili istanze a cui la nascita di Rifondazione voleva dare espressione politica. Per capire questa tesi, occorre ricordare rapidamente il clima in cui si svolse, nel 1991, la dissoluzione del PCI e la nascita del PDS e di Rifondazione. Allora (e negli anni a seguire) il contrasto fra Rifondazione e “sinistra moderata” viene letto come il contrasto fra chi vuole conservare la radicalità anticapitalistica e gli ideali di giustizia sociale, da una parte, e chi ha scelto di adattarsi al capitalismo limitandosi al più a “temperarne” gli eccessi, dall'altra. In sostanza, il mantenimento del nome “comunista” e della simbologia correlata viene visto (sia dai suoi fautori sia dai suoi detrattori) come “strumento e segno” di una perdurante intenzionalità anticapitalistica ed emancipativa. A mio avviso è questo l'errore originario alla base di tutte le storture successive. Cercherò di argomentare questa tesi nel seguito, ma posso subito dire che essa si riassume in una osservazione di Massimo Bontempelli (della quale non riesco a ritrovare la fonte, cito quindi a memoria): egli scrisse a suo tempo che proprio coloro che volevano conservare l'intenzionalità anticapitalistica e gli ideali emancipativi della sinistra storica, avrebbero dovuto abbandonare i simboli della tradizione comunista e rifondare, ma sul serio e su basi nuove, un progetto politico di radicalità anticapitalistica.
Cerchiamo allora di argomentare queste tesi. Nella nascita di Rifondazione Comunista confluiscono molte e diverse realtà politico-culturali, che per la nostra discussione attuale possiamo dividere in due filoni principali: da una parte alcuni settori del PCI, dall'altra alcuni settori del variegato mondo di quella che una volta era l'estrema sinistra. Si tratta allora di capire se era possibile, in quel momento storico, riprendere queste due tradizioni, magari fondendole in qualche modo, e su questa ripresa basare la costruzione di un soggetto politico anticapitalistico che conservasse il riferimento al comunismo. La risposta è un secco no: non era possibile farlo, e per questo un nuovo soggetto politico anticapitalistico avrebbe dovuto nascere, come appunto scriveva Bontempelli, sul distacco da quelle tradizioni, e quindi anche dal termine “comunista” e dalle simbologie ad esso legate. Cerchiamo adesso di spiegare perché. Esamineremo rapidamente queste due tradizioni, avvertendo che si tratta, al di là delle somiglianze di facciata, di due tradizioni molto diverse, e che quindi diverse sono le ragioni che motivano il nostro giudizio. Un'altra osservazione preliminare è la seguente: le realtà politiche che nel Novecento, nei paesi occidentali, si sono richiamate al comunismo, hanno a mio avviso evidenziato notevoli componenti di ideologia, nel senso marxista di “falsa coscienza”. Hanno cioè prodotto un tipo di coscienza di sé che era piuttosto lontana dalla realtà. Di fronte a questo fatto, applicheremo l'ovvio principio metodologico di guardare a quello che la gente fa, e non a quello che dice, per capire l'essenza di una realtà politica. Cominciamo con l'esaminare la realtà del PCI. Il PCI ha rappresentato un “pezzo” importante della storia del nostro paese a partire dalla Resistenza e fino al suo scioglimento, diciamo dal '43 al '91. Cosa ha fatto il PCI in questo periodo? In primo luogo, ha contribuito alla lotta di liberazione e alla stesura della Costituzione (e quindi all'instaurazione di una democrazia liberale con forti componenti di giustizia sociale). Dopo la guerra il PCI ha sostanzialmente sostenuto tutte le lotte di rivendicazione di redditi e diritti da parte dei ceti popolari e più in generale tutte le istanze di “modernizzazione” del paese. Ha inoltre amministrato varie realtà locali, in modo generalmente riconosciuto efficace. In definitiva, se si guarda a ciò che il PCI ha realmente fatto, appare chiaro che la sua azione è stata quella tipica di un partito riformista e socialdemocratico. L'ovvia differenza sta nello schieramento internazionale: il PCI era filosovietico e questo ne impediva la partecipazione al governo nazionale, rendendo così difficile una azione riformista e socialdemocratica diciamo “classica”. Ora, se questa, detta in maniera sintetica, è effettivamente la natura del Partito Comunista Italiano, quella cioè di essere una “socialdemocrazia filosovietica”, possiamo rispondere alla domanda se c'è in questo “comunismo” qualcosa a cui ci si possa riallacciare direttamente. Se abbia senso cioè per un partito anticapitalistico oggi definirisi “comunista” facendo riferimento a questa tradizione. Ora, non c'è certo molto da dire sull'aspetto “filosovietico”: non credo che nessuno possa oggi rivendicare il filosovietismo e pensare di fondare su questa base un movimento politico anticapitalistico che abbia qualche senso. Ma anche concentrandosi sull'aspetto “socialdemocratico” del PCI, quello che è certamente più valido e che ha maggiormente contribuito al progresso del nostro paese, è evidente che non ha senso rivendicarlo sotto l'etichetta del “comunismo”: il fatto che il PCI abbia fatto una politica riformista e socialdemocratica sotto lo slogan del “comunismo” è chiaramente un limite e un errore, non qualcosa che possa essere ripreso e utilizzato oggi. Il fatto di fare una politica riformista sotto le bandiere del comunismo ha indebolito quella politica, non l'ha rafforzata, perché ha reso fin troppo facile alle forze antiprogressiste opporsi alle richieste progressive indicando nella società sovietica, che nessuno in Italia voleva, lo sbocco logico dell'azione del PCI. Più in generale, quello che il PCI in questo modo ha creato è un massiccio strato di falsa coscienza fra i suoi militanti e più in generale fra il popolo di sinistra. E mi sembra difficile che una nuova forza anticapitalistica possa oggi proporsi come obiettivo la falsa coscienza, il “raccontarsi storie”, il non avere una chiara coscienza di ciò che si è e di ciò che si fa. Del resto, se si vuole riprendere il discorso del riformismo del “trentennio dorato” del dopoguerra, occorre partire dalla coscienza che quel periodo è finito da almeno trent'anni, che i ceti dominanti stanno distruggendo sistematicamente tutte le conquiste dei ceti popolari, e che i partiti una volta riformisti sono diventati gli strumenti di questa distruzione. Il PCI e i suoi eredi “moderati”non fanno eccezione. Il fatto di essersi chiamato “comunista” ha rappresentato, per il PCI e i suoi eredi “moderati”, un freno, un ostacolo al processo degenerativo che ha coinvolto l'intera sinistra occidentale? Appare chiaro che la risposta è no. E allora ha senso richiamarsi a questo “comunismo” che nei suoi momenti migliori ha solo nascosto e deformato la realtà di una politica riformista e socialdemocratica, e poi non ha in nessun modo impedito la degenerazione del partito? La nostra risposta è, chiaramente, no. Passiamo adesso a discutere l'altra tradizione che è parzialmente confluita in Rifondazione, e alla quale si potrebbe fare riferimento per continuare a parlare di “comunismo”, la tradizione cioè delle varie correnti minoritarie ed eterodosse, che nascono già negli anni Venti del Novecento e si moltiplicano e declinano all'infinito in ottanta o novant'anni di storia nei paesi occidentali. Come dicevamo all'inizio, si tratta di una tradizione molto diversa dalla precedente, nonostante l'uso di simboli analoghi. Infatti, la tradizione del PCI è quella di una realtà che ha fatto la storia del nostro paese, che è esistita concretamente e ha concretamente operato. Se parliamo degli infiniti rivoli dell'estremismo di sinistra, dobbiamo per prima cosa focalizzare questo punto: si tratta di realtà che non sono mai esistite nella realtà concreta, che non hanno mai inciso sulla storia reale. Per chiarire cosa intendo dire può servire il riferimento metaforico a un concetto matematico, quello di “insieme trascurabile” o “insieme di misura nulla”. Si tratta di un concetto astratto che può essere illustrato con un esempio concreto. Supponiamo di affrontare un problema di calcolo di volumi, per esempio il calcolo del volume di una sfera, intesa come un oggetto solido, tridimensionale. Quando parliamo del volume di una sfera, intendiamo oppure no includere in essa la superficie sferica che la delimita? La risposta è che la cosa non ha nessuna importanza: la superficie sferica, in quanto superficie, ha volume uguale a zero, quindi includerla oppure no non fa nessuna differenza, per quanto riguarda il calcolo del volume. Un “insieme trascurabile” è un oggetto di questo tipo: un oggetto che esiste, che può essere studiato e approfondito, ma che non ha nessuna rilevanza rispetto al problema che stiamo indagando. Appunto come una superficie quando si parla di volumi. Ecco, l'intero mondo dell'estremismo di sinistra nei paesi occidentali, è un oggetto trascurabile in questo senso: è esistito, è pure interessante da studiare, entro certi limiti, sul piano della storia delle idee, ma è del tutto trascurabile sul piano della storia politica, economica e sociale, sul piano dei rapporti di forza, della capacità di incidere concretamente sulla realtà. Basti pensare al fatto che tale mondo si è sempre definito “rivoluzionario” in contrapposizone al “riformismo” dei partiti ufficiali del movimento operaio. Ma si tratta di rivoluzionari che non hanno mai fatto una rivoluzione, e questo sarebbe ancora poco (perché una rivoluzione la si può tentare ed essere sconfitti): si tratta di “rivoluzionari” che non si sono mai nemmeno lontanamente avvicinati non diciamo a fare una rivoluzione, ma nemmeno a preparararla, nemmeno a fare i primissimi passi nella direzione di una rivoluzione. E non solo non hanno mai fatto una rivoluzione, ma non hanno neppure in nessun altro modo mai inciso sulla realtà politica e sociale, non hanno neppure mai potuto lontamente erodere il consenso dei partiti tradizionali del movimento operaio presso il proletariato, e sono rimasti sempre piccoli gruppi ininfluenti e ignorati dai più. E tutto questo non può dipendere da errori e limiti di alcuni individui: stiamo parlando di un fenomeno che riguarda l'intero occidente da circa settanta o ottant'anni. Nei paesi più diversi, nelle situazioni più diverse, a partire dalle ideologie e dai ceti dirigenti più diversi, il mondo dell'estremismo di sinistra ha sempre riprodotto la propria inutilità. Per capire i motivi di questa ostinata volontà di essere inutili, dobbiamo anche qui applicare il principio del guardare a ciò che la gente fa e non a quello che dice. Cosa fanno, da ottanta o novant'anni a questa parte, questi “rivoluzionari”? Essenzialmente producono scritti e analisi e li diffondono in vari modi (riviste, libri, volantini, iniziative pubbliche). Le forme esteriori di questa diffusione di scritti sono quelle della politica, ma in realtà questi piccoli gruppi sono del tutto incapaci di fare politica (nel senso di una politica che incida sulla realtà). Se dobbiamo cercare una analogia, essi appaiono in sostanza come dei piccoli circoli culturali fortemente specializzati su particolari temi di politica ed economia. E vista la totale incapacità di fare politica, di incidere sulla realtà, che è tipica di tutta la storia di tutto questo mondo, dobbiamo concludere che questo non può essere un errore o un incidente ma è, evidentemente, la loro ragion d'essere: si tratta di piccoli gruppi di persone che non vogliono confrontarsi con la realtà, incidere in essa, e che invece di scegliere la via del monastero, della solitudine e della meditazione sull'eternità scelgono (per motivi che andrebbero approfonditi sul piano psicologico, ma non è questo il luogo) di fare i “monaci marxisti”, di chiudersi nelle catacombe di qualche piccolo gruppo “rivoluzionario” e lì raccontarsi qualche strana favola sulla politica e la rivoluzione. 
Si tratta insomma, anche in questo caso, di una tradizione che presenta un tasso altissimo di falsa coscienza, di illusione su di sé. Non si vede allora davvero in che senso si possa trovare in questa tradizione un modo per rivitalizzare la nozione di “comunismo”, per farne la base di una nuova forza politica. La caratteristica precipua di questa tradizione è piuttosto il rifiuto della politica, l'incapacità di incidere sulla realtà, l'impotenza totale, fantasmaticamente sublimati come coerenza rivoluzionaria e profondità di analisi. E' evidente, mi sembra, che chi vuole costruire una vera forza politica anticapitalistica deve piuttosto rompere con questa tradizione e denunciarne i limiti. Una volta esaminate le due principali tradizioni confluite in Rifondazione Comunista, appare evidente che è impossibile da esse ricavare una nozione di “comunismo” che abbia oggi un senso e un valore per una forza politica anticapitalistica. Questo purtroppo non è un caso. Si tratta della conseguenza di un altro fatto, in realtà molto semplice, e che sarebbe davvero il momento di accettare fino in fondo: non esiste, da ottanta o novant'anni, nessuna prospettiva comunista nei paesi occidentali. I comunisti sono spesso piuttosto vaghi quando si chiede loro cosa possa mai voler dire, oggi, essere comunisti. A mio modesto avviso, un comunista dovrebbe essere qualcuno che vuole il comunismo, e il comunismo dovrebbe essere un progetto generale di una organizzazione sociale ed economica diversa dall'attuale e migliore di essa. E affinchè il comunismo sia una realtà politica, e abbia quindi senso l'esistenza di un partito comunista (in quanto realtà diversa da un circolo di discussioni filosofiche sul comunismo), vi deve essere un progetto politico che possa portare in tempi ragionevoli a compiere passi significativi nella direzione voluta. Il comunismo deve cioè essere un obiettivo rispetto al quale si possano indicare una serie di azioni politiche che ragionevolmente lo possano avvicinare. E la prospettiva di significativi cambiamenti nella direzione del comunismo deve essere qualcosa che può essere verficiato, almeno nel medio periodo. In sostanza, ha senso che esista un partito comunista se il comunismo è una concreta possibilità politica. Ora, dovrebbe apparire evidente che, se mai è esistita questa “possibilità concreta del comunismo” in occidente, essa non esiste più da ottanta o novant'anni: diciamo dalla metà degli anni Venti (ma non sono importanti le date precise, ovviamente). Da ottanta o novant'anni, il comunismo in occidente è una irrealtà. E questo non vuol dire solo, ovviamente, che in occidente non c'è il comunismo, ma vuol dire che nessuno è in grado di indicare una strada politica concreta, ragionevole, sensata, percorrendo la quale si possa dire che ci si avvicina realmente ad una società comunista (qualsiasi cosa si intenda con questa espressione). Di fronte a questa irrealtà del comunismo, è del tutto ovvio che chi continuava a richiamarsi ad esso aveva solo due possibilità: o rientrare nella realtà, e quindi abbandondare ogni richiamo concreto al comunismo e farne solo una copertura ideologica di una pratica di tutt'altro tipo (ed è la scelta del PCI), oppure restare fedeli all'irrealtà del comunismo e uscire così dalla realtà storica concreta: è la scelta dell'estremismo di sinistra, che in questo modo si riduce a vivere l'esistenza spettrale di un ectoplasma. Il comunismo è tornato ad essere uno spettro, ma uno spettro che non fa più paura a nessuno, e che anzi, nel suo carattere “innocuo e folkloristico” (parole di Prodi), può avere una limitata utilità per i ceti dominanti, come dimostra l'esperienza dei governi di centrosinistra in Italia. Possiamo finalmente avviarci alla conclusione, alla modesta proposta alla quale si accenna nel titolo di questo articolo. Essendo il risultato della confluenza di due tradizioni entrambe del tutto incapaci di fondare una realtà politica anticapitalistica adeguata ai tempi attuali, il Partito di Rifondazione Comunista nasceva con gravissimi limiti. E' inutile discutere adesso se essi potevano essere superati oppure no. Di fatto non sono stati superati e hanno portato alla sostanziale dissoluzione del partito. Cosa potrebbero fare militanti e dirigenti di quel partito? Credo che dovrebbero prendere atto di questa situazione e convocare un congresso straordinario mettendo all'ordine del giorno la proposta di scioglimento del partito e di costruzione di una nuova forza politica anticapitalistica. Una tale nuova forza politica dovrebbe abbandonare definitivamente la parola “comunismo” e le simbologie ad esso legate, acquisendo finalmente la coscienza che, nella situazione attuale, quella parola e quelle simbologie non sono garanzia di radicalità anticapitalistica, ma, tutto al contrario, sono la compensazione simbolica di una reale impotenza politica. Come ho già scritto altrove, abbandonando il “comunismo” non avete da perdere che le vostre catene, e un mondo da guadagnare.

Documento approvato dal Comitato politico nazionale del 9 e 10 marzo 2013


Il CPN del PRC esprime il proprio ringraziamento a tutti i compagni e le compagne che si sono impegnati con generosità e passione anche in questa difficilissima campagna elettorale, dimostrando che Rifondazione Comunista rimane una risorsa imprescindibile per la sinistra e la democrazia in Italia, un patrimonio umano e politico il cui valore nessuna soglia di sbarramento antidemocratica può cancellare.
Va riconosciuto il fallimento del tentativo di Rivoluzione Civile che non è riuscita a diventare il punto di riferimento per la domanda di cambiamento e la protesta di milioni di elettori. Hanno contribuito alla sconfitta elettorale sicuramente limiti soggettivi nostri e dei nostri interlocutori e alleati. In particolare il ritardo e la conseguente rapidità nel configurare lo stesso progetto ne hanno impedito una costruzione democratica e partecipata. Non va sottovalutato che la collocazione in alternativa al PD per il PRC era una scelta maturata da tempo e unanimemente condivisa all’interno, mentre per gli altri soggetti politici della lista si è trattato di uno sbocco obbligato a causa della chiusura del PD nei loro confronti. La stessa esperienza della Federazione della sinistra si era arenata sul nodo dell’alleanza con il PD. Anche un processo partecipato come quello apertosi con l’appello “Cambiare si può” è giunto troppo tardi per poter determinare un percorso condiviso di costruzione unitaria dal basso. Rivoluzione Civile, che pure avrebbe dovuto coniugare questione morale e questioni sociali ed economiche, non è riuscita a definire e a presentarsi con un profilo e un’identità forti dentro la campagna elettorale in cui sia la crisi economica che il rifiuto di una politica corrotta sono stati temi centrali.
L’esito elettorale, da cui esce vincente il movimento di Beppe Grillo, ha determinato un terremoto politico che fotografa una fortissima crisi di legittimazione dell’intero sistema dei partiti come articolatosi durante il ventennio del bipolarismo.
Il segno politico del voto è quello del rifiuto delle politiche di austerità e di bocciatura dei partiti che hanno sostenuto il governo Monti, la cui ombra ha ipotecato e pregiudicato anche la possibilità di affermazione di un centrosinistra che si è candidato a proseguire con più equità quell’impianto rigorista dettato dalla BCE. La stessa parziale tenuta di Berlusconi può essere spiegata con la paura da parte di ampi settori sociali storicamente rappresentati dal centrodestra, in particolare piccole imprese e lavoro autonomo, di diventare il bersaglio di un nuovo governo rigorista.

Il risultato di fondo che ci consegna il voto è lo scardinamento del bipolarismo che non possiamo che salutare positivamente ma senza nasconderci possibili involuzioni del quadro. Se la sconfitta dell’ipotesi di un governo Bersani-Monti costituisce un dato positivo, non possiamo escludere il profilarsi di una risposta conservatrice al terremoto in termini di blindatura ulteriore del sistema politico attraverso l’introduzione del doppio turno e del presidenzialismo. La stessa mancata vittoria del PD potrebbe produrre un ulteriore spostamento a destra dell’asse programmatico, mascherato da ringiovanimento della classe dirigente. Dentro questo quadro va rilanciata la nostra battaglia per il proporzionale e l’urgenza di risposte a un’emergenza sociale senza precedenti.
L’incalzare e l’approfondirsi della crisi e il malcontento suscitato dalle misure assunte per contrastarla, tanto inique quanto inefficaci, hanno determinato nel contesto italiano un rivolta dell’elettorato che si è espressa però non sul terreno della lotta di classe ma su quello della contrapposizione dei cittadini contro la casta.
A determinare questa dilagante percezione di massa non è stata soltanto la indubbia capacità comunicativa e “diversiva” di Grillo, ma le caratteristiche specifiche della situazione italiana a partire da una corruzione sistemica, una questione morale che i partiti non hanno voluto affrontare in termini di autoriforma, un clima di delegittimazione del Parlamento e della politica alimentato dagli stessi media dei “poteri forti”, la pervasività del lungo discorso antipolitico berlusconiano, il disarmo culturale agito dalla stessa sinistra di governo.
Ha pesato fortemente l’anomalia italiana di un mancato sviluppo del conflitto sociale di fronte al dispiegarsi di uno stillicidio di provvedimenti antipopolari.
Non può essere taciuta la responsabilità in tal senso di sindacati come Cisl e Uil che hanno coperto persino la strategia di Marchionne, ma anche la linea del gruppo dirigente della Cgil (con significative eccezioni a partire dalla Fiom) condizionata dal suo rapporto con un PD che sosteneva il governo Monti. La mancanza di ondate di movimenti di lotta paragonabili a quelle degli altri Paesi europei impone anche a noi e al resto della sinistra antiliberista una riflessione. Al tempo stesso impone la ripresa di una iniziativa del partito in sinergia con i movimenti a partire dalle prossime scadenze delle manifestazioni No Tav e No Muos.
Non va mai dimenticato che la nostra sconfitta è l’ultimo capitolo di una sconfitta più grande e storica che è quella del movimento operaio e di processi di atomizzazione sociale di lungo periodo che abbiamo da tempo analizzato e vissuto sulla nostra pelle, ma rispetto ai quali non siamo riusciti a determinare un’inversione di tendenza. Le nostre responsabilità soggettive si iscrivono dentro questo quadro.
Negli ultimi cinque anni abbiamo difeso con dignità e orgoglio Rifondazione Comunista. Il progetto intorno al quale ci siamo impegnati contemplava il rilancio del partito e la costruzione dell’unità della sinistra d’alternativa. Non possiamo non constatare che nessuno di questi obiettivi è stato conseguito. Il quadro di difficoltà dentro il quale abbiamo sviluppato la nostra iniziativa politica non ci esime certo da una riflessione senza reticenze sui nostri limiti, errori, insufficienze.
Si rende indispensabile aprire una fase di riflessione e confronto per ridefinire il ruolo di Rifondazione Comunista, con la consapevolezza che siamo di fronte alla chiusura del ciclo di Rifondazione per come l’abbiamo conosciuta e che sia ineludibile la necessità di rimetterci in discussione.
Ripensare il ruolo del Prc non implica rinunciare al progetto della Rifondazione Comunista ma cercare di individuare le strade per rilanciarlo sul piano dell’elaborazione teorica e programmatica, della pratica sociale, del radicamento, dell’organizzazione, della relazione con tutto ciò che si muove al di fuori di noi.
La sconfitta di Rifondazione e del complesso della sinistra radicale, che dentro la più grave crisi del capitalismo non sono riuscite in Italia a diventare punto di riferimento dell’ampio malcontento e del disagio sociale, costringe tutte le culture politiche e le esperienze organizzate a mettersi profondamente in discussione e ad attivare un processo di ricomposizione che non può essere riproposto in forme pattizie che non coinvolgono anzi accentuano l’ostilità e la diffidenza assai diffuse nei confronti dei partiti.
La profondità della sconfitta, nonostante la gestione unitaria del partito e una ampia condivisione della linea, impone un percorso di confronto ed elaborazione collettiva fondato sull’ascolto reciproco e sul coinvolgimento dell’intero corpo del partito a partire dal livello territoriale.
La riflessione che vogliamo collettiva non va ristretta entro le forme congressuali e della logica delle mozioni, ma sviluppata attraverso seminari tematici, assemblee territoriali, l’utilizzo di internet, coinvolgendo gli iscritti e con l’apertura al contributo di compagni della sinistra e dei movimenti. Sviluppare l’orizzontalità e partire dai contenuti sono due aspetti fondamentali per rendere fecondo e non rituale il percorso.
Lo stesso risultato del voto non smentisce l’asse della nostra battaglia politica di questi anni e neanche la collocazione difficile che abbiamo scelto nelle ultime elezioni. Milioni di elettori hanno scelto una proposta politica di rottura netta con il bipolarismo e che non si presentava come moderata. Al di fuori e contro il bipolarismo lo spazio si è allargato enormemente ma non è stata Rivoluzione Civile a occuparlo.
Rifondazione Comunista rimane e resta valida l’esigenza di costruire una sinistra antiliberista unita e autonoma dal centro-sinistra, alternativa rispetto a questo sistema politico.
Rifondazione Comunista da tempo è cosciente della sua non autosufficienza e quindi della vitale necessità della ricomposizione della sinistra di alternativa come in tutta Europa.
I successi recenti delle formazioni aderenti al Partito della Sinistra Europea ci dicono che è possibile uscire dalla marginalità senza rinunciare alla radicalità, alla coerenza sui contenuti e a una posizione di alternativa e di indipendenza rispetto a partiti di centrosinistra che hanno fatto proprie le politiche neoliberiste. Si tratta ora di compiere un salto di qualità dando impulso ad un percorso nuovo e unitario di rilancio e rinnovamento dell’intera sinistra di alternativa.
L’esperienza di questi anni e degli ultimi mesi ci induce a ritenere non riproponibili pratiche ‘pattizie’ e quindi a rilanciare la centralità della democrazia e del principio “una testa un voto” come metodo indispensabile per la costruzione di una nuova soggettività politica unitaria della sinistra e dei movimenti sociali antiliberisti, ambientalisti, contro la guerra.
L’apertura della discussione a tutti i livelli sull’esito elettorale, sulle prospettive del partito, sulla necessità di un suo rinnovamento (in primo luogo delle pratiche, delle modalità di intervento e dei gruppi dirigenti, anche sul piano generazionale) e sul futuro della sinistra non deve bloccare l’operatività del partito e l’iniziativa politica, a partire dalle prossime elezioni amministrative e da una forte partecipazione alle prossime scadenze di mobilitazione.
Al fine di coniugare il più ampio dibattito e il proseguimento dell’attività del partito il CPN individua i seguenti impegni:
- Partecipazione alle manifestazioni No ponte il 16 marzo, il 16 marzo a Firenze manifestazione antimafia, la mobilitazione No Tav il 23 marzo e quella No Muos il 30 marzo.
- Convocazione attivi di circolo e di federazione
- Convocazione dell’assemblea nazionale dei segretari di circolo e di federazione
- Convocazione periodica della riunione dei segretari regionali e di federazione
- Convocazione della conferenza programmatica entro il mese di luglio
- Convocazione del congresso straordinario nazionale entro novembre.
- Elezione della commissione politica per la stesura del documento congressuale e avviamento del percorso di approfondimento e dibattito anche attraverso seminari tematici nazionali e territoriali,
- La segreteria nazionale rimane in carica per garantire il proseguimento dell’iniziativa politica del partito e della gestione amministrativa fino al congresso.

Documento presentato dalla maggioranza della Commissione votata dal Cpn per il documento finale
La votazione del dispositivo finale è avvenuta per parti separate, gli ultimi tre punti sono stati approvati a maggioranza.

lunedì 11 marzo 2013

Si è chiuso un ciclo, mica la storia


intervento di Paolo Ferrero

«Abbiamo da elaborare un lutto collettivo», esordisce Paolo Ferrero e non sarebbe potuto essere più esplicito aprendo i lavori del comitato politico nazionale del partito che guida dal 2008 e che, cinque anni dopo deve confrontarsi con un'altra sconfitta pesantissima. Qundici giorni dopo la conta magra alle urne la segreteria si presenta dimissionaria come primo segno di discontinuità al primo parlamentino di Rifondazione che oggi tirerà le fila di una prima tornata di discussione trasmessa in streaming sul sito del quotidiano Liberazione.
Ferrero rammenta il duro lavoro dopo la scissione di Sel per riaffermare la presenza di una sinistra di alternativa in grado di incarnare le ragioni dell'antiliberismo e dell'anticapitalismo. «Siamo stati presenti nelle lotte - spiega - abbiamo sviluppato pratiche mutualistiche come quelle del partito sociale. Le elezioni erano un elemento di validazione di quel lavoro politico. Questa conferma non c'è stata. Dopo il tempo della delusione, però, si deve aprire il tempo della riflessione per poter riaprire l'azione in una relazione fortissima col tessuto militante, la principale risorsa che abbiamo». Il punto d'arrivo, dirà in conclusione, sarà un congresso di cui tutti sentono il bisogno ma che per Ferrero va indetto subito ma andrà svolto solo dopo una fase di ascolto, una discussione organizzata, farlo ora sarebbe lacerante. Prima di allora si dovrà ragionare sulla crisi della politica e della rappresentanza, sull'Europa, sulla crisi delle identità sociali, su come costruire una soggettività di massa consapevole. «Serve un tempo in cui ci possiamo interrogare su tutto questo»
Primo tra tutti c'è il problema di costruire la relazione tra gli organismi dirigenti e il tessuto militante. Senza quel tessuto di circoli e di relazioni militanti non ci sarebbe stata campagna elettorale, ne ha dovuto prendere atto anche la cabina di regia di Rivoluzione civile. Per Ferrero, «la nostra presenza in questi anni non è stata residuale, siamo una comunità animata da passione durevole ma dobbiamo tradurre l'indignazione in cambiamento efficace». Avvertendo la platea dal rischio di un eccesso di relativizzazione della sconfitta, il segretario situa il tonfo elettorale alla fine di tre cicli: primo, il ciclo del movimento operaio del dopoguerra, in questo momento non esiste nessun conflitto sociale vero. La connivenza o l'assenza delle organizzazioni sindacali c'entra con la disperazione delle persone, «manca una risposta di classe ad un attacco di classe». Secondo: è finita la seconda repubblica «e questo è un fatto positivo». Terzo: «credo che ci sia anche la chiusura del ciclo di Rifondazione comunista per come l'abbiamo conosciuta. Con questa complessità ci dobbiamo misurare». Come dire che nessuno pensi a operazioni di maquillage.
Tutta la relazione di Ferrero tenderà a prendersi il tempo necessario per fare i conti con la sconfitta. «Così in basso non c'eravamo mai arrivati - ammette - nessuna forma democratica c'è stata nella costruzione delle liste, ne hanno fatto le spese i territori e le compagne. Il meccanismo dell'assemblaggio ha prodotto esclusioni pesanti come quelle di Nicoletta Dosio e Vittorio Agnoletto. E non è emerso a sufficienza il profilo del nostro programma su come uscire dalla crisi. La costruzione di Rivoluzione civile derivava da due processi: quello di chi aveva scelto la costruzione di una lista in autonomia dal Pd e quello di chi era stato escluso dall'alleanza Pd-Sel. L'ambivalenza ha pesato molto. Tutto ciò non spiega il 2%: abbiamo raccolto solo il voto di relazione perché non siamo riusciti a spiegare il senso, siamo stati un'opzione debole tra opzioni più forti e più organizzate, la più solida opzione è quella di Grillo perché la rete è organizzazione della comunicazione, è materialità».
Si poteva fare altrimenti? «E' questo l'oggetto della discussione. La Fds, che era in crescita, si è sfasciata sul problema del rapporto col Pd. Non siamo riusciti a produrre una mediazione tra Cambiare si può e Ingroia». Il segnale del voto, secondo lui, parla di una rivolta contro il quadro politico e le politiche di austerità, hanno perso i partiti del governo Monti, ha vinto Grillo, ha perso meno Berlusconi che ha saputo smarcarsi da quel governo. «Ma non è la rivoluzione - avverte - è solo la crisi della seconda repubblica, le forme in cui si definisce il dissenso sono i materiali prodotti da vent'anni di berlusconismo, il dissenso ha usato canali in sintonia col senso comune. Tutto il disagio sociale è fatto risalire ai privilegi della Casta», continua Ferrero precisando che sarebbe sbagliata la demonizzazione del M5s. «C'entra, invece, il disastro combinato da noi al tempo del governo Prodi che ha distrutto una credibilità, c'entra la nostra incapacità di dare sviluppo coerente ai movimenti». Insomma, è importante cogliere il significato sociale del voto - molto voto operaio, di giovani che non vedono futuro, di disperazione sociale diffusa si è riversato su Grillo - e sarebbe positivo se il M5s venisse coinvolto nel governo e riuscisse a rompere l'impermeabilità ventennale della politica alle istanze sociali. Se si riattivasse quella relazione, secondo Ferrero, si romperebbe un senso di impotenza, ma «temo che non avverrà, sono tutti dentro un gioco iperpoliticista a rimpiattino, Grillo compreso. Così torneranno in campo i poteri forti pressione per nuove riforme istituzionali per governare un paese che ha detto di non voler essere governato da quelle politiche». Il primo compito del Prc dovrà essere di lavorare per «rimettere al centro le questioni sociali da subito, spiegare che il rimpiattino produce ulteriore devastazione». Rifondazione parteciperà alle imminenti manifestazioni No Ponte, No Tav e No Muos.
Che cosa fare? «Il terremoto è appena cominciato». Quella che a Ferrero pareva una «Weimar al rallentatore» sembra accelerare i fotogrammi. «Qualsiasi sia l'esito si riapre un'altra partita, si chiude un ciclo, non la storia e questo vale per tutti. E' fallita la concertazione, c'è afasia nel sindacato da parte di chi aveva puntato tutto sul governo amico. Come tutte le crisi c'è il pericolo e l'opportunità». Ferrero, dunque, chiede di ripartire dal patrimonio di militanza sedimentata, se parla di crisi non lo fa con intento liquidatorio («sarebbe devastante»), e intravede un patrimonio «fuori di noi anche se non ci ha votato o non ha votato affatto. La pesantezza della sconfitta obbliga tutti a interrogarsi, ci sono culture politiche che stanno esplodendo». Ma Rifondazione comunista deve superare i propri limiti «nella comprensione della società, nella comunicazione e nella costruzione di uno spazio pubblico. Non siamo riusciti a entrare nell'universo comunicativo, ci hanno raccontato anziché riuscirci a raccontare da noi. Adesso la ridefinizione della nostra esistenza deve essere fatta a partire dal fatto che siamo parte di un movimento più grande. Dobbiamo ragionare sul fatto che non sia possibile oggi un partito di massa. E allora come si costruisce un partito comunista non di massa ma che non sia settario? Inoltre, il processo fondativo di una sinistra d'alternativa si è sempre fatto con percorsi di aggregazione di tipo pattizio (Fds e Rc da cui, nel frattempo, si sono sfilati l'Idv e De Magistris, ndr) ma quella strada lì non funziona: il criterio dev'essere una testa un voto».